Cronachesorprese

17 Settembre 2007

Avena d’oro

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Un CD di Cristina D’Avena venduto a 1210 euro. Io non sono in grado di capire. Qualcuno mi spieghi come può accadere.
Queste aste probabilmente funzionano come le compravendite d’azioni. Compri il valore dell’azione, che poi siano scarpe o pozzi di petrolio non fa differenza.
Però non capisco ugualmente. Sarà raro quanto si vuole, ma come fa un CD di Cristina D’Avena a raggiungere quel valore?
Io non diventerò mai ricco, perché non capisco.

19 Giugno 2007

Stipendi alla griglia

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Oggi al mercato orientale di Genova ho visto su un banco di pesce fresco i gamberoni rossi a 95 euro al chilo. Non sono abituato a comprarli, ma mi sembra tanto. Erano bellissimi, eh. Però una grigliata quanto verrebbe a costare?

6 Giugno 2007

Cisco reporter

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Lele Dainesi al Femcamp di Bologna, davanti alla telecamera di Robin Good, ha difeso così la sua scelta di passare a Cisco.

Cisco passa da corporate a consumer e spero che mi dia la possibilità di raccontare da giornalista questo passaggio epocale. Mi sento privilegiato per questo.

Io non ho seguito tanto le discussioni che sono fiorite prima, dopo e intorno al famoso aperitivo offerto da Cisco a cento blogger. Le ho fatte decantare: comincio a capire che anche nella blogosfera questo può essere un buon criterio di selezione (che è necessaria, almeno finchè non inventeranno le giornate di 48 ore) per decidere a cosa dedicare attenzione. A valle di giorni e giorni di queste conversazioni Lele, con la consueta allegria, ha detto questa cosa che ho riportato. Qualcuno, se ho ben capito, sostiene che non è possibile fare il giornalista così, che si dovrebbero subire troppi condizionamenti e rischiamo di perdere il Lele più libero e critico. Però davvero in un’impresa editoriale la libertà del giornalista è più coltivata e tutelata che in altre aziende? Io qualche dubbio ce l’ho.

La libertà del giornalista o è una utopia oppure, se è possibile, deve essere possibile anche nelle imprese non editoriali. Per fare un esempio più banale, l’ufficio stampa di un’azienda non ha addetti senza cervello, cloni della direzione che applicano i corollari dell’immagine che la direzione ha deciso di dare all’azienda. Un addetto di ufficio stampa, se è bravo, è un mediatore: uno che media tra le esigenze di comunicazione dell’azienda e i giornalisti. Tra un più di così non dico e un meno di così non chiedo: condivide gli obiettivi di comunicazione dell’azienda ma fa il possibile perché anche il diritto all’informazione dell’utente venga tutelato. Sto parlando forse di un mondo ideale? Non credo.

Lele in Cisco avrà un ruolo diverso, ovviamente, ma a a ben vedere la differenza vera sta nel nuovo canale di comunicazione che apre un’azienda in conseguenza della decisione di rivolgersi al segmento consumer. Di solito si fa attraverso due canali principali: la pubblicità e la stampa. Due canali monodirezionali. Usando anche i blog, e chiamando un giornalista blogger a farlo, Cisco fa una scommessa e si prende anche un bel rischio. Perchè usare un blog per questo significa partire dando credito non soltanto al blogger giornalista, ma anche alle relazioni tra blog in virtù delle quali il giornalista in questione è blogger. Questo, credo, era il significato dell’aperitivo. Significa rendere più facile a Lele dare voce e spazio al destinatario dei servizi di Cisco, nel gioco di mediazione in cui consiste il lavoro di un giornalista dentro un’azienda.

Interessante. E Lele fa bene ad essere entusiasta. Buon lavoro.

12 Ottobre 2006

TFR = Trovare Fondi Rapidamente?

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Come tutti sappiamo, di denaro non virtuale ne rimane poco in circolazione. Non so per gli altri con reddito paragonabile al mio, ma per me da qualche anno l’unico metodo efficace di accantonamento a lungo termine è il mutuo casa. Dal 1999 non sono riuscito a risparmiare in nessun altro modo, dal 2002 poi non ne parliamo. Le credit card sono ormai debit card e quasi tutte le spese che non riguardano la pura sopravvivenza si risolvono con finanziamenti di diversa entità e durata. Di denaro vero, almeno personalmente, ne maneggio poco.
A breve, però, dovrei ricevere una liquidazione che corrisponde a un accantonamento del mio Tfr di quasi sei anni, poiché dall’inizio di questo mese ho cambiato azienda. Non sarà molto, ma mi permetterà di tappullare, come si dice a Genova: cioé di mettere una pezza a diversi problemi la cui soluzione, negli ultimi tempi, ho dovuto rimandare.
Da pezzentissima ultima ruota del carro della popolazione cosiddetta produttiva, è per me motivo di grande stupore constatare che anche lo Stato sta ragionando più o meno allo stesso modo. Ho bisogno di liquidità per qualche tappullo ai conti, vado a prenderla in uno dei pochi posti dove si trova denaro vero, i tfr dei lavoratori. Con una piccola differenza: che è, appunto, dei lavoratori e non dello Stato. E, usando quei fondi, lo Stato non diminuisce il suo debito, lo aumenta. Con il risultato, che mi sembra disastroso in prospettiva, di degradare una riserva di denaro contante e sonante a una delle tante pietre filosofali con cui il mondo della finanza ammorba i conti e le tasche dei produttori e percettori di reddito. La riserva diventa pegno, pagherò, corrisponderò interessi, e via di seguito. Come lavoratore non mi basta la garanzia di ricevere comunque la liquidazione. Perché se passerà questa norma della finanziaria la mia azienda, quando andrò in pensione, sarà costretta ad anticipare i soldi per pagare la mia liquidazione: poi lo Stato li restituirà all’azienda.

Io capisco una semimazza di economia e non sono in grado di valutare se le spiegazioni che ha dato il ministro Padoa Schioppa a Confindustria siano sufficienti: confesso la mia ignoranza, se qualcuno è in grado di spiegarmi cosa significano le seguenti parole prese dall’intervista al ministro su Repubblica di oggi avrà la mia riconoscenza, una stretta di mano, insomma una gratificazione squisitamente morale perché ancora sto un po’ sulle spese: "La norma sul passaggio del 50% del tfr inoptato al fondo gestito dall’Inps riguarda solo il flusso, e ho sottolineato più volte la parola flusso, e non lo stock. Le imprese non subiranno aggravi di costo, ma semmai otterranno vantaggi. Per le più grandi, a fronte dei maggiori tassi pagati sui prestiti bancari rispetto alla remunerazione del tfr, lo Stato rimborserà differenziali superiori, e per le più piccole siamo pronti ad esaminare gli eventuali problemi di liquidità insieme al sistema bancario che già si è detto disponibile. Dunque, dov’è il problema?"

Non lo so dove sta il problema tecnico. Presumo però di sapere dove sta il problema di un’impostazione di politica economica che dalle esternazioni del ministro di questi giorni sembra fin troppo chiara. Padoa Schioppa, prima di cominciare a spiegare in un modo che solo i tecnici o almeno i ragionieri possono capire (e io sono un povero umanista, come tanti), ha sparato due o tre cannonate che invece capiscono tutti.
Prima, in parlamento: "non capisco che cos’hanno i ricchi da lamentarsi", più o meno testuale (per inciso, la settimana scorsa mi è capitato di raccontarlo a un gruppo di turisti americani di una certa età e di ottimo livello di istruzione, suscitando l’ilarità generale).
Poi ha detto che se le aziende fanno i capricci per il tfr vanno a finire a letto senza cena, più precisamente senza il taglio del cuneo fiscale.
Poi ha detto che le aziende devono ricordarsi che il tfr è soltanto prestato alle aziende e a ottime condizioni, ma che in realtà appartiene ai lavoratori.
Appunto. Questa idea che il tfr sarebbe per le aziende grasso che cola, mentre per lo stato sarebbe linfa vitale; e soprattutto questa strana equazione tra ciò che appartiene ai lavoratori e ciò che è a disposizione dello Stato, vi dirò, non è che mi fa stare tranquillo.  Allo stesso modo non mi piace che si dica alle aziende: "voi avete meno titolarità dello Stato a gestire risorse create direttamente dalla vostra attività produttiva". Senza arrivare agli eccessi berlusconiani, che non condivido, per me questa è una spia di una mentalità vagamente statalista (e posso anch’io sottolineare più volte la parola statalista). La riforma del ministro Maroni era su questo punto sostanzialmente diversa, e metteva di fatto in primo piano la scelta del lavoratore sulla destinazione del tfr.
Se posso scegliere, piuttosto che buttare i miei accantonamenti nella voragine dell’Inps preferirei farli gestire dalla mia azienda, che per quanto non sia un paradiso bene o male fa qualcosa di concreto per me, come tutte le aziende per tutti i lavoratori. Cosa potrà fare l’Inps di concreto per me e per i miei coetanei, francamente, non lo so.

29 Aprile 2005

Uso socratico della lattuga

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Discutendo con Thrasher e vari avventori del suo blog ho messo a fuoco un po’ meglio un pensiero che inseguo da mesi e che ho già usato come spunto per affliggere altri interlocutori. L’ho chiarito solo un po’ di più, sono ancora lontano dal padroneggiarne tutte le implicazioni, intanto lo metto nero su bianco perché finora ne ho solo parlato e magari a scriverne riesco a rifletterci meglio.

Ordino un hamburger in un locale qualsiasi. In due preparazioni su tre è compresa una foglia di lattuga. Quando mi portano il panino mi viene spesso da chiedermi quale immagine di perfezione sta dietro all’imperativo morale, che nessun barista al mondo osa ignorare, di guarnire un hamburger con una foglia di lattuga a qualsiasi costo. Sì, a qualsiasi costo: perché la foglia nove volte su dieci arriva appassita, ingiallita, bruciacchiata, addirittura con i segni della griglia, ormai lontanissima anche dal più pallido ricordo del suo primitivo splendore.

E’ un’immagine mitica di un’eccellenza che abbiamo visto poche volte nella vita, forse alcuni non hanno mai visto: una lattuga fresca e saporita sopra o meglio accanto a un hamburger di ottima carne, di dimensioni accettabili, cotto al punto giusto. Ah, una foglia cruda naturalmente. Cosa la metti a fare nel panino ancora da cuocere? La lattuga va nel piatto, o va aggiunta al panino dopo la cottura. Già. Ma nel pub o nel bar c’è sempre un sacco di gente, bisogna far presto, azzicca tutto dentro a ‘o pane e via. Beh, ma allora, per farla bruciare o appassire, non la usare. Ti costa anche una cifra. No, la lattuga rimane. Mi sembra uno di quegli enti inutili che ogni tanto qualche politico con velleità moralizzatrici tenta, senza successo, di eliminare.

Perché? Perché la lattuga viene usata in modo così improprio? Non so ancora spiegare bene, ma questa domanda ha un’importanza capitale. Mi sembra che sia una delle tante applicazioni di una dinamica umana e di mercato comunissima. La merce prolifera e si aggrega attorno a un’immagine di un’eccellenza irraggiungibile. Irraggiungibile non per natura, anzi (cosa ci vorrà mai a usare la lattuga come va usata, nel contesto – hamburger…). E’ che, una volta enunciata l’eccellenza di riferimento, sembra quasi che la concreta riproduzione di quell’eccellenza nel maggior grado possibile diventi una questione secondaria. Basta l’enunciazione. Basta che il menu crei l’immagine (ci sono anche i menu con le foto!) e ti suggerisca: oh, ci siamo capiti, io intendo quel bel verde, quella bella foglia carnosa, se ti arriva un po’ diversa non starai mica a sottilizzare, apprezza l’intenzione…

No, non apprezzo l’intenzione. Più ci penso, più mi convinco che quell’intenzione lì sia proprio una cagata, anzi, la radice di molte conseguenze assai più incresciose di un panino dal quale, tutto sommato, puoi limitarti a estrarre l’insalata abortita. Ci ritornerò.

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