Quando comincia a fare caldo i latinoamericani di Genova vengono fuori. Non che non ci siano o non si notino nel resto dell’anno: sono tantissimi e ovunque. A Sampierdarena soprattutto.
Ma d’estate fanno meglio quello che sanno fare molto bene: vivere la strada e la piazza. Se c’è qualcosa che potrebbero insegnare a noi, oltre a ballare salsa bachata e merengue (ma quello lo stanno facendo, e bene) è questa capacità di socializzazione inintermediata che manca così tanto qui.
Manca più a Genova che nel resto d’Italia: Genova non è una città di grandi piazze. Quelle che ci sono non sono storiche, a parte qualche eccezione. Genova fino alla caduta della Repubblica non ha mai progettato grandi spazi all’aperto, e neanche grandi strade, ma solo piccole piazze o più spesso semplici slarghi in corrispondenza dei mercati, delle chiese più importanti e di edifici civili pubblici. Via San Lorenzo è stata “tagliata” nella prima metà dell’ottocento dai Savoia facendo spazio in un dedalo di case abbarbicate l’una all’altra (si chiama anche “taglio di San Lorenzo”), ma furono i francesi dopo l’occupazione napoleonica ad avere l’idea, perché la grandeur aveva le sue esigenze e voleva marcher trionfalmente dal porto a Palazzo Ducale. Se si vuole capire qualcosa di questa città bisogna considerare che nessuno, prima, aveva mai sentito l’esigenza di farlo.
Altre città italiane dieci volte più piccole si aggregavano e crescevano attorno ad almeno una grande piazza. Genova no. Né la cattedrale né Palazzo Ducale avevano davanti le attuali piazze. Fino ad allora quella parte del centro di Genova non era “carrabile”: uomini e merci arrivavano dal Mandraccio a Portoria solo a piedi o a dorso di mulo. Stesso discorso per via Garibaldi o Strada Nuova: hanno sbancato una collina per esigenze di rappresentanza, perché serviva ai banchieri genovesi mandare in tutta Europa un’immagine diversa da quella di un enorme angiporto con le strade a giro come quelle di tutti i centri storici sul mare a rischio di incursioni saracene. Ma se non era per quello i nobili se ne sarebbero stati tranquillamente nei loro palazzi di via San Bernardo o di via Giustiniani, inaccessibili in mezzo al loro gran bel bordello urbanizzato.
Sono anche fattori storici e urbanistici come questi a rendere difficile per questa città accogliere i sudamericani, anche quando vorrebbe. Intendo anche per quella parte di città che consciamente li accoglie bene senza discriminarli, che non sarà (forse) la maggioranza ma non è neanche una minoranza esigua di illuminati intellettuali. Se i genovesi sentono culturalmente e razionalmente vicini i sudamericani per la lingua e le tradizioni culturali e religiose, inconsciamente li sentono distanti per il modo di stare insieme e di socializzare.
Le piazze che i genovesi non hanno mai usato sono facilmente monopolio di ecuadoriani, colombiani, peruviani. Passano all’aperto gran parte del tempo libero bevendo un po’ troppo ma vivendo quello spazio comune come noi non sappiamo (più) fare. Non dico che li invidio, ma questo è sicuramente qualcosa che hanno in più di noi. Io la sera sto poco a casa, soprattutto in questa stagione. Ovunque vada trovo molti sudamericani e pochi italiani. Parlo delle strade, non dei locali dove vado a ballare la “loro” musica e in cui si fanno vedere solo ogni tanto. Trovo anche nordafricani e altri, ma i grandi numeri li fanno i latinos. E mi viene un po’ di rabbia. Non perché trovo loro, ma perché non trovo gli italiani. Devo essermi perso qualche delibera non scritta che impone o consiglia una separazione di fatto.
La fighettistica “movida” di piazza delle Erbe, onestamente, è abbastanza ridicola. E lontana dalla vita vera della città: anche quello struscio è roba di rappresentanza che si fa una o due volte la settimana per sentirsi trendy. I vicoli al venerdì e al sabato sera sono stracolmi di gente, ma nessuno incontra nessuno. Al massimo ci si guarda da una certa distanza. Tutti sono già “con la loro compagnia”, categoria orrenda che, insieme al successo secolare delle banche, denota l’incapacità dei genovesi di simpatizzare per l’imprevisto, in qualsiasi forma umana o naturale si presenti.
È la latitanza degli italiani che a volte mi fa sentire un po’ un estraneo nella mia città, non il grande numero di extracomunitari. Qualche giorno fa davanti alla Commenda di Pré ho visto un gruppo di ecuadoriani che cantavano i loro pasillos attorno a uno con la chitarra. Mi sono fermato ad ascoltarli. A parte i troppi cartoni di vino scadente mi sono piaciuti. Non erano impostati, lo facevano solo per passare del tempo insieme e per stare bene. Mi chiedevo cosa manca a noi per fare lo stesso, magari con una bottiglia di vermentino o barbera a buon mercato ma onesto (una sola, senza esagerare).
Forse non abbiamo la necessità di ritrovarci per sentirci a casa, di fare un po’ di “casa” attorno. Loro usano molto la musica a questo scopo. Capita spesso, negli affollati autobus per il ponente, di incontrare qualche ragazzino sudamericano che sente musica a palla senza usare le cuffie. Roba tipo reggaeton per lo più, oppure bachatas eccessivamente mielose. Il primo moto è di fastidio. Ma solo raramente qualcuno reagisce. Li ho osservati molto e ho capito che la loro disattenzione alle esigenze degli altri viaggiatori non è strafottenza adolescenziale (parlo in generale, poi ci sono anche quelli che appenderesti al finestrino con le cuffie che non usano). È un modo di “marcare” lo spazio attorno a loro con qualcosa di familiare. Un modo istintivo e tutto sommato sano di reagire all’isolamento che probabilmente sentono. Un po’ li capisco: i loro coetanei italiani li snobbano e usano impropriamente anche la parola “movida”, senza immaginare neanche lontanamente che una “fiesta” è ben più interessante. Rompere un po’ di timpani sugli autobus tra Principe e Voltri è, in fondo, una ritorsione leggera, quasi umoristica.