Guerre che scoppiano solo quando finiscono. Ne avevo parlato a settembre, a proposito di un certo decennale.
I fatti della scuola Diaz sono quel genere di guerra. Che uno dice, uno come Vicari, il regista di Diaz: don’t clean up this blood: bisogna ricordare quello che è successo, raccontarlo ai ragazzi che hanno quindici anni perché capiscano. Bene, giusto: raccontiamo. Stiamo fedeli agli atti dei processi, e Vicari lo è (fin troppo, dice Giorgio Viaro, e condivido la sua preoccupazione per la latitanza di un minimo di trasfigurazione artistica che non confonde ma aiuta la memoria). Facciamo sentire almeno con un po’ di fastidio il peso di quei manganelli sulle schiene, sulle facce e sulle teste inermi, ricreiamo quel senso di claustrofobica e rabbiosa impotenza che devono aver provato quei ragazzi in quella scuola. E la pena di essere trascinati sanguinanti e quasi moribondi a Bolzaneto perché l’oltraggio e l’abuso fossero dilazionati oltre il sopportabile, perché il disprezzo fosse inequivocabile. O ancora peggio la paura di essere prelevati da un letto di ospedale, quando legittimamente si poteva sperare di essere ormai al sicuro in mani premurose e caritatevoli. Tutto questo nel film c’è, tutto questo è accaduto, giusto ricordarlo.
Ma come sperare davvero che questo serva perché non accada più? Dubbi ritornanti, mi pare. Da quando la guerra, almeno nei paesi occidentali, si è insabbiata per venire fuori solo in pochi momenti di lucida follia. Il G8 di Genova è una di queste sciagurate epifanie. Ricordare è doveroso, ma per mettersi al riparo serve altro.
Servirebbe anche dimenticare qualcos’altro. O meglio, ricordare che la guerra non è mai buona, neanche quando è rappresentata. Non credo di essere il solo ad aver vissuto a Genova, nei mesi prima del G8, in un clima orrendo e mefitico. E non ricominciamo con le accuse reciproche di parte. La difficoltà nel parlare di quei fatti e nel valutarli è principalmente una: la scena era malata in partenza per responsabilità di tutti. Era fin da mesi prima la scena di una pièce sadomasochistica. Cosa vuoi che succeda in una scena così? Esattamente quello che è successo, ed è andata ancora bene.
Prego vivamente di non leggere queste parole con criteri di parte su chi ha sbagliato “prima”, nella preparazione dello scenario. Lo scenario di una guerra già in atto, che quando scoppierà nella sua manifestazione più cruda sarà solo per finire. E per tornare sottoterra, e arrivederci alla prossima occasione in cui potrà ancora luttuosamente sorprenderci.
Oppure fatelo, via: se proprio non potete farne a meno rinfocolate le vostre fazioni, ma non venitene a discutere con me. Massì, potete anche raccontare fatti interessanti seguendo una tesi, ma non sperate che accetti di incastonare racconti interessanti in tesi precostituite. Non mi interessava allora, non mi interessa oggi. Prenderò gli elementi interessanti delle vostre cronache, valutazioni, analisi e le farò sedimentare in me insieme a tutto ciò che ho accumulato in questi anni.
Ho vissuto come ho potuto quei giorni, da testimone, da osservatore attivo e non da manifestante. Se mi fossi dato un po’ più da fare avrei potuto passare in quel media center, se non la notte, almeno la sera. E invece ero preoccupato soprattutto di tenere la giusta distanza. Non solo per non mettermi in pericolo (in quelle situazioni spesso è puro caso: ero in corso Gastaldi nel momento in cui sparavano a Carlo Giuliani, a trecento metri al massimo di distanza), ma per non dare mai l’impressione di essere con i manifestanti. O contro di loro. Perché la scena era malata, e io lo sapevo.
Però i fatti sono fatti e bisogna ben ragionare partendo da quelli. Purtroppo l’etichetta di più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dalla fine della guerra non è esagerata. Il problema è che viene accettata ed enunciata solo da una parte e quindi rimane incastrata in narrazioni che alla fine non mi convincono. Io mi sono impegnato ad accettarla, il che non vuol dire che accetti totalmente le narrazioni che normalmente la accompagnano.
Il film è da vedere? Consideriamo caso per caso quale tipo di indigenza manifestate da spettatori come me. Concordo con Viaro anche su questo: se non avete idea di cosa sia successo la notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 in quella scuola, correte a vederlo.
Se sapete tutto e provate ancora un po’ di repulsione al pensiero, andate tranquilli: servirà a mettere un po’ di distanza e a farsi qualche domanda più razionale di quelle che ci siamo fatti a ridosso degli eventi.
Se avete seguito il processo udienza per udienza, se avete già visto su youtube i cinque spezzoni del dvdframe G8, il film non aggiungerà molto. Ma probabilmente non ve lo perderete ugualmente.
Se infine siete convinti, come molti ancora sono (sinceramente?) convinti che “dovevano dargliene di più”, non andate a vederlo. Perché probabilmente pensate davvero che a voi non potrebbe mai capitare.
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