Sono talmente “allarmato” per la febbre suina che ieri ho mangiato il plato del dia al ristorante messicano: uno squisito spezzatino di maiale accompagnato da arroz con frijoles negros e insalata; il tutto annaffiato da una negra modelo. L’ottima ed economica Taqueria Mamacita’s di via Pré (vi rimando alla recensione di Tambu di due anni fa) era meno affollata del solito. Sapevo che sarebbe stato così, per questo sono andato. Le paure alimentari, anche quando sono giustificate, producono sempre comportamenti irrazionali. “Da dieci anni non viene importata carne dal Messico”, mi ha detto la titolare. Chiaro. E anche se fosse diversamente, sappiamo che il contagio non si diffonde mangiando carne di maiale. Nonostante ciò, molti evitano il messicano. E allora se si vuole mangiare in pace niente di meglio che andare al messicano in questi giorni :-)
Carlo Petrini cerca di sfruttare l’occasione della nuova psicosi per dire qualcosa di utile. Difficile davvero non essere d’accordo. È un peccato che siano necessarie sempre e solo le emergenze per dare la giusta attenzione a queste considerazioni. Io non sono vegetariano, ma penso che l’attuale consumo di carne a livello mondiale sia una follia. L’animale non è più neanche sfruttato completamente, viene sprecato. Lo so che il discorso sembra trito come un macinato fine, ma è vero: il consumo di carne nella civiltà contadina era regolato dalla disponibilità degli animali. Era naturale che non si potesse mangiare prosciutto o bistecca di maiale tutti i giorni. Nessuno pensava a farlo, neanche i ricchi, neanche i signori. C’era una proporzionalità tra la fatica, il lavoro a volte disumanizzante che comportava l’allevamento del bestiame, la crudeltà indubbia del sacrificio di un animale e il consumo di carne.
[ propongo a chi vuole vederla una scena dell’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, famosissima e cruenta. non adatta a chi è impressionabile, ma di alto valore documentario.]
Ora nessuno rimpiange, giustamente, la fatica dell’allevatore di un tempo. Ma non sarebbe male se si mantenesse, in qualche modo, la parsimonia nel consumo e il rispetto che c’era per l’animale anche nel nutrirsene. Il punto era che si sapeva da dove veniva quello che si mangiava. Oggi lo chiameremmo consumo consapevole; e la consapevolezza che potremmo avere noi sarebbe anche superiore rispetto a quella dei nostri nonni. Abbiamo una possibilità di scelta enorme, che nessuno prima di noi ha mai avuto in tutta la storia umana; soltanto per questo dovremmo diversificare la dieta quel tanto che è necessario per non incoraggiare gli allevamenti industriali, per non stressare gli stock ittici, per non indurre la distribuzione a diminuire le quote di prodotto fresco e locale sui banconi. E invece accade il contrario: i nostri nonni sapevano diversificare molto di più di noi la loro dieta. Un po’ per necessità, ma non solo.
Cerco di sintonizzare le mie abitudini alimentari a questa idea. Cerco di mangiare carne quando ne vale la pena. Quando sono in un posto nuovo e voglio provare una ricetta tradizionale. Quando vado a una sagra, come quella del cinghiale della tribù dei galliolus. Quando a una fiera trovo banchi gastronomici meritevoli, o passo da una macelleria di paese alla quale posso chiedere carne di provenienza interessante. Quando c’è da fare una bella grigliata con gli amici. Va bene, ogni tanto vado anche al Mc Donald. Ma è molto raro, capiterà una volta all’anno. E capita per compagnia, non per mia scelta.
Se tutti facessero così la richiesta di carne diminuirebbe e si disincentiverebbe l’allevamento industriale. E non sentiremmo mai parlare della febbre suina, della mucca pazza, dell’aviaria e di altre cose simili che poi si portano sempre dietro, olltre alle psicosi, notizie false generate spontaneamente o propalate ad arte per fini non nobili o comunque diversi dalla tutela della salute.