In una discussione di poche ore fa, in cui si parlava di origine dei libri sacri, mi è stato risposto che la differenza tra “dettatura” e “ispirazione” sarebbe solo un “gioco di parole”.
Oltre a notare, per l’ennesima volta nella mia vita, che molti atei si condannano da soli su questa materia a una superficialità che sicuramente non usano in altre occasioni, voglio rincarare la dose. Non soltanto i due concetti sono molto diversi, ma sono anche opposti. La parola “ispirazione” è bellissima e molti a mio parere non riflettono a sufficienza sul suo reale significato perché abbiamo in testa questa immagine romantica del poeta che scrive quasi in stato di rapimento. Oh, è un’immagine anche di un’agiografia deteriore, intendiamoci. Ispirazione, invece, vuol dire essere così mossi, provocati da una realtà che tutta l’energia umana di cui si è capaci viene convogliata in una qualche forma di espressione. Va da sé che questa condizione non è in alcun modo compatibile con una dettatura passiva: è una condizione, al contrario, di “attività” particolarmente intensa. E poiché il concetto è stato usato sempre, per tutta la storia della chiesa a cominciare da San Paolo, forse bisognerebbe fare qualcosa per togliersi dalla testa immagini sbagliate.
Noto a margine che l’ispirazione è anche un problema per l’esegesi. Perché se l’autore sacro è ispirato sta usando al massimo le sue capacità di espressione, e quindi usa gli strumenti culturali ed espressivi che ha a disposizione, quelli del suo tempo e del suo popolo. Il fatto che riesca a dire qualcosa che ha valore universale non toglie il fatto che la forma, le immagini che usa, gli interlocutori che ha in mente, insomma il mondo in cui vive costituiscono un condizionamento. Ma quel che è certo è che gli scrittori sacri della Bibbia sono lontani anni luce da qualsiasi dettatura.