Cronachesorprese

4 Novembre 2007

L’enfer c’est les Sartres

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Cominciai a pensare che, proprio mentre il mio mondo straripava di sentimenti di infinite possibilità, ne esistessero altre di cui non sarei mai potuto venire a conoscenza. Un altro livello di fede, un altro genere di luce, una certezza ancora più profonda.
“L’altro giorno, il padre priore mi stava raccontando di Jean-Paul Sartre, uno scrittore francese. Un esistenzialista. Sono sicuro che un cervellone come te sappia già chi sia. Mi ha colpito in particolare una sua frase: l’enfer c’est les autres. Secondo te, era una battuta?”
“Dubito che l’umorismo sia un punto forte degli esistenzialisti”.
“Secondo me, sono p-p-pinzillacchere. Come può l’inferno essere gli altri? Dio si manifesta negli altri. Dio è l’Altro. Ecco perché l’io deve perdersi nell’amore per l’altro. È l’io che dobbiamo lasciarci alle spalle. Meglio dire che l’inferno è il Sé. L’enfer c’est moi.”
L’enfer c’est les Sartres.”
Oui oui oui. Per quanto un p-p-peu ingiusto, per tutti gli altri Sartre!”

Tony Hendra, Padre Joe

24 Ottobre 2007

Giovani epigrammisti crescono

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Comprerò appena possibile il libro sui fincipit di Eio. Per certi versi mi ricorda il mio concittadino Gino Patroni, che nei suoi libri di epigrammi metteva delle cose che non erano rigorosamente fincipit ma si avvicinavano abbastanza. Qualche esempio, di quelli che mi ricordo a memoria: “Erano le cinque della sera, le cinque della sera, le cinque della sera sull’orologio fermo”; “Mensa popolare – Una minestra di verdura, ed è subito pera”. “Cantami o diva del pelide Achille quello che vuoi”. “Infarto in trattoria – Verrà la morte e avrà i tuoi gnocchi”.
Credo che Gino apprezzerebbe molto i fincipit.

7 Settembre 2007

Me li voglio proprio perdere

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Nella vetrina libri di blogbabel noto questa settimana un curioso affollamento di manuali di devozione per giovani atei. Dopo l’esilarante “saggio” (rotfl) di Odifreddi credo fideisticamente che mi perderò senza alcun rammarico anche i seguenti.

Giulio Giorello – Di nessuna chiesa. La libertà del laico
Motivazione. Sono stato educato alla libertà nella Chiesa cattolica, di sicuro non ho bisogno di reimpararla da altri. E ho il fondato sospetto che il buon Giorello, che pure stimo come filosofo della scienza, voglia spiegarmi che non si può essere liberi e contemporaneamente appartenenti a una chiesa. Naturalmente è falso. Piuttosto bisognerebbe andare a stanare le troppe chiese che non si dichiarano tali.

Richard Dawkins – L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere
Motivazione. Questo vuole “dimostrare” che Dio non esiste. Poverino.

Lopez Campillo e Ferreras – Corso accelerato di ateismo
Motivazione. Su questo in realtà sono possibilista, perché sembra che abbia lo scopo di insegnare la tolleranza agli atei, e credo proprio che ne abbiano bisogno. Però è veramente ingenuo dipingere i credenti come quelli “che vivono di certezze, di serenità, di fede”.

Ad ogni modo, non so se sia presto per parlare di moda editoriale, ma una tendenza mi pare di vederla. Se escono così tanti titoli sull’argomento vuol dire che hanno mercato. Quindi mi preparo: nei prossimi anni incontrerò tanti giovani filosofi che vorranno offrirmi la spada affilata del dubbio e insegnarmi l’arte di usarla, perché i credenti non sarebbero abili a forgiarsela e a brandirla da soli. Quanto poco ci conoscono.

10 Luglio 2007

Quel che resta della notte

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mario calabresi spingendo la notte più in làNon so quanti abbiano letto La verità di piombo di Leonardo Marino, pubblicato da Ares nel 1992 e riedito qualche anno dopo con un altro titolo più esplicito. Non credo moltissimi. Sicuramente meno di quelli che si dicono assolutamente certi della totale estraneità dei vertici di Lotta continua al delitto Calabresi. Su quali basi, ho sempre chiesto quando mi è capitato di parlarne, se la versione di Marino non la conoscono? Non ne conoscono, almeno, la puntualità e la coerenza, perché i giornali di tutti gli orientamenti l’hanno quasi sempre snobbata. Hanno dato conto di ogni passo, di ogni respiro del personaggio Sofri, e hanno cercato di ricacciare il suo antagonista nel girone dei cattivi senza diritto di parola.
Io l’ho letto quando è uscito, e quando la campagna denigratoria nei confronti di uno dei pochi veri pentiti dell’eversione anni 70 aveva ormai sortito i suoi effetti: una campagna insopportabilmente ideologica con in testa galantuomini come Dario Fo, evidentemente non contento del contributo dato, all’epoca, al linciaggio mediatico che fu la premessa del delitto Calabresi. Ho anche parlato con Marino a Bocca di Magra, quando collaboravo con una televisione locale, chiedendogli invano di rispondere a qualche domanda: era molto diffidente, visto che lo stavano attaccando tutti i giornali; in quel momento, in particolare, temeva che gli togliessero lo spazio in cui tuttora vende le crêpes per vivere.
Ho letto anche la Memoria di Sofri, e ho seguito con grande interesse, come molti italiani, le vicende processuali. Sono abbastanza convinto della fondatezza dell’accusa. Leggendo Marino risulta evidente almeno un elemento, che viene sempre passato sotto silenzio: il pentito ha dimostrato di essere attendibile perché si sono trovati i riscontri a quasi tutte le affermazioni riguardanti il suo ruolo nel movimento e l’esistenza del tanto discusso livello illegale. La difesa, per screditare Marino a tutto campo, ha negato non solo la sua versione sul delitto ma anche il resto. E lì si è giocata gran parte della sua credibilità.

Spingendo la notte più in là è invece la storia di Mario Calabresi, figlio del commissario ucciso, della sua famiglia e dell’ incontro con altri parenti di altre vittime del terrorismo. Una specie di cognizione del dolore che ha cominciato a prendere forma dopo i tardivi riconoscimenti dello Stato, le medaglie al valor civile concesse da Ciampi nel 2004 a Calabresi e ad altri. Non la cognizione privata del dolore, che è cominciata ben prima. Mario parte dalla cognizione condivisa con chi ha avuto una sorte simile alla sua e la offre come spunto per farla diventare collettiva, perché è convinto che sia un passaggio fondamentale per lasciarsi definitivamente alle spalle quel passato che ancora divide e ferisce, come avviene quando si legge su un muro una scritta calabresi assassino (graffito fresco, non d’epoca), e come è avvenuto ad altre famiglie e a tutti quando è toccato a Tarantelli, Ruffilli e poi a D’Antona cadere improvvisamente, senza che nessuno potesse prevederlo (discorso a parte per Biagi: in quell’occasione, come per Calabresi, le avvisaglie c’erano e si poteva fare qualcosa per evitarlo). Troppo sappiamo delle vicissitudini degli ex terroristi, sappiamo che sono diventati operatori sociali, scrittori e addirittura onorevoli. Sappiamo tutto del modo in cui hanno superato o sublimato la follia eversiva, sappiamo che in pochi si sono pentiti e che non sono poi tanti quelli ancora in carcere. Ora sarebbe il momento di sapere qualcosa di più di quelli che non possono uscire dalla condanna che hanno subito trent’anni fa a una vita senza marito, senza padre, senza figlio. E questo libro è un’ottima occasione per cominciare, perché è scritto con la serenità e la pacatezza di chi ha sofferto, elaborato la sofferenza e trovato una via d’uscita. Scritto senza sconti e con la chiara coscienza della violenza subita, ma senza ombra di rancore. Una bella testimonianza, nello stile della famiglia Calabresi che ha sempre chiesto giustizia senza alzare mai i toni, neanche di fronte a calunnie abnormi.

Mario è un giornalista, scrive e racconta da giornalista. Ma è diventato a modo suo giornalista molto presto, quando a quattordici anni saltava la scuola, racconta, per andare in biblioteca e passare in rassegna tutti i giornali dalla strage di piazza Fontana alla morte di suo padre. Non tutti i figli che erano appena nati o molto piccoli quando i loro padri morivano per il piombo di destra o di sinistra hanno avuto la stessa lucida e precoce voglia di capire. Mario incontra la figlia di Antonio Custra, il giovane poliziotto morto a Milano durante gli scontri in via De Amicis del 1977 (era il giorno della famosa foto simbolo del ragazzo con la P38): lei lo spiazza chiedendo a lui come erano andate le cose, e che ne era dell’assassino di suo padre. Fino a oltre vent’anni dopo sarebbe stato troppo doloroso, per lei ma soprattutto per sua madre, cercare e chiedere per conoscere, per capire.

Di assoluto interesse il racconto del colloquio con Gerardo D’Ambrosio. In poche parole l’ex magistrato spiega come arrivò a scartare le ipotesi di omicidio e di suicidio per la morte di Pinelli: lo fa in maniera convincente e si capisce che il buon senso è stato esiliato dalla mente di tanti per troppo tempo, se ancora c’è chi ritiene Calabresi responsabile. D’Ambrosio è lo stesso magistrato, occorre notare, che smontò la pista anarchica per la strage di piazza Fontana.

8 Luglio 2007

Venerabili topi e consorti

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“Volevano uno che gli raccontasse l’India, sai, l’India che si apriva. Io arrivavo nell’India del boom, nell’India della grande espansione economica, nell’India che sarebbe diventata il più grande mercato del futuro assieme alla Cina. E loro volevano che glielo andassi a raccontare. Mal gliene incolse! Non me ne fotteva niente dell’India economica. Andai a Bangalore, il centro degli esperti di computer, e scappai via come un ladro. Mentre il giornale mi suggeriva di scrivere dell’India che si modernizzava, io andavo a giro per i deserti del Rajasthan a scrivere di un tempio dove si adoravano i ratti. […]
C’è il grande boom dell’Asia, l’Asia del Sudest esplode, esplode la Cina, esplode l’India, e questi hanno i templi in cui adorano i ratti! Io la raccontavo così. Sì, adorano i ratti che per noi sono l’essere più schifoso, ma che per loro sono l’essere più meraviglioso perchè il ratto è il portatore del dio elefante, Ganesh. E io cercavo di spiegare al mio giornale che era difficile che questa diventasse la terza potenza economica del mondo. […]
Poi c’è il tempio alla Figa che è bellissimo e che non a caso si trova sulla riva del Bramaputra, un fiume maschile. Ci si entra attraverso una galleria sotterranea e si arriva a una figa immensa, in pietra, che loro tengono sempre umida con un cencio rosso. C’è un puzzo di fiori marci e tutti andavano lì a chiedere la fertilità”.

Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio

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