Cronachesorprese

12 Novembre 2008

Un distorsore che userò

Filed under: parole, non fatti,semiminime — alessandro @

distorsoreDetta ora da Bersani a Otto e mezzo:

“Non sono un pessimista, sono un ottimista molto preoccupato”.

Mi piace :-)
Potrebbe essere buona anche: “Non sono un ottimista, sono un pessimista molto incosciente”.
A ben vedere, sono proprio i concetti di ottimista e pessimista che non mi sono mai piaciuti. Quindi vedo di buon occhio tutte le distorsioni che possono servire a forzarli, finché il senso originale sembrerà talmente scontato da diventare inservibile.

15 Ottobre 2008

Apartheid? :-/

Filed under: cronache,parole, non fatti — alessandro @

Non ho ancora un’opinione precisa sulla mozione della lega alla camera che propone l’istituzione nella scuola dell’obbligo di classi dedicate agli studenti di origine straniera che non sanno ancora l’italiano. Ma di una cosa sono sicuro: non è una proposta anticostituzionale. La costituzione dice (articolo 33) che l’ammissione ai vari ordini e gradi può essere subordinata a esami di stato. E dice anche (articolo 34) che l’istruzione è aperta a tutti, obbligatoria e gratuita per otto anni.
Isitituire classi separate non significa, mi pare, negare il diritto all’istruzione. Se ci sono prove da superare per accedere a un certo grado di istruzione una delle ragioni di non ammissione può ben essere una competenza linguistica non adeguata. Quanto all’articolo 3 e alla “segregazione” mi sembra davvero un’obiezione ridicola. In altri paesi non ti fanno neanche entrare, se non sai la lingua. Le classi separate possono essere un modo legittimo di interpretare quel “compito” dello stato a “rimuovere gli ostacoli” di cui parla proprio l’articolo 3.

Ma ripeto, non ho ancora un’opinione precisa. Noto solo che il dibattito, come al solito, si avvia su binari massimalisti che non servono a mettere a fuoco la questione. Il problema dell’abbassamento del livello didattico per la presenza di tanti stranieri nelle classi è un problema reale. Forse la mozione della lega non è la soluzione. Ma non capisco chi mette in ballo paroloni e paure (razzismo? apartheid?) e si rifiuta di vedere il problema.

Perché in Italia prima di arrivare al nocciolo di una questione bisogna sempre attraversare questi mari di retorica degli estremi?

12 Giugno 2008

Gonfiare le matiche

Filed under: parole, non fatti — alessandro @

È un comportamento tipico di diverse specie, piccoli roditori come il Topo d’ufficio (Murus burocraticus) o grossi e sgraziati uccelli come il Pavone da Evento (Pavo Kermessus, detto volgarmente Gallo portavoce).

Questi e altri animali scriventi, quando per qualche motivo si sentono minacciati e non al sicuro nella foresta delle parole (spesso per loro pericolosa e inospitale), si rifugiano nel sottobosco delle parolette infestanti, costituito per lo più da erbacce e funghi parassiti, un groviglio di organismi tallofiti che non saprebbero di niente se non succhiassero qualche umore ed essenza di significato dalle piante accanto alle quali vegetano.

Molto diffusi, ad esempio, i parassiti della Pianta del Tema. Si diividono in due grandi famiglie: le tematiche e i tematismi. Numerose anche le muffe del Noce del Problema (in inglese Heart of the Matter), note come Problematiche Sostantive Maiuscole, da non confondersi con le innocue problematiche aggettive, commestibili e indicate per diverse preparazioni verbali.

Il topo d’ufficio e il pavone da evento in situazioni di particolare stress si nutrono di tematiche, tematismi e problematiche in grande quantità. L’effetto immediato è un’aumentata aggressività che si traduce in comportamenti mimetici e rituali di preparazione alla lotta (gonfiare le matiche, appunto) per sembrare più grossi di quello che si è, un po’ come il gatto quando rizza il pelo o si mette di traverso.

5 Giugno 2007

Parole, non fatti

Filed under: parole, non fatti — alessandro @

Vedo che il sondaggio proposto ha avuto un certo successo. Nei commenti all’ultimo post ci sono così tanti spunti che ho pensato di inaugurare una categoria apposta. La chiamo Parole, non fatti perché le parole che sceglierò sono spie linguistiche della distanza del giornalista dal fatto di cui dovrebbe parlare come testimone o avendo sentito i testimoni o le persone più vicine ad esserlo. Una distanza che spesso rimane (è questo l’aspetto più interessante della faccenda) anche quando chi scrive sarebbe davvero in grado di farlo da testimone: ma preferisce non esserlo davvero, preferisce non dare tanto peso all’esserci. Preferisce correre sui binari certi di uno stile narrativo già concluso in parole e frasi scritte e riscritte, lette e rilette; e sente probabilmente in questo modo di essere più professionale.

Un cronista giovane ma di una certa esperienza una volta mi ha spiegato come faceva a parlare di un incidente stradale per un’intera cartella partendo dalle classiche cinque W molto scarne. Gli incidenti avvengono spesso nei soliti posti, soprattutto quelli fuori dalle autostrade, quindi a seconda del dove si può presumere qualcosa del come. Poi ci sono frasi che vanno bene, che sono collaudate, come l’auto, per motivi ancora non chiari, ha cominciato a sbandare; la celeberrima asfalto reso viscido dalla pioggia e così via. Me lo raccontava non con espressioni ammiccanti, ma con un certo orgoglio. Si fa così, ne era convinto.

Forse ha ragione lui, in parte: ci sono fatti minimi che si ripetono più o meno uguali. E non c’è sempre il tempo e l’interesse per renderne l’unicità che certo andando a vedere bene si può anche trovare, ma… perché farlo, nella grande maggioranza dei casi?

Il problema però è che questo atteggiamento di sufficienza poi si estende a tanti altri casi e corre il rischio di essere tramandato e insegnato come aspetto della professionalità. Non stupirsi di nulla, perché si sa come vanno le cose, si vede sempre dietro le quinte, si vede l’attore che si leva il trucco, il politico che parla fuori dai microfoni, il funzionario di polizia che chiede di parlare di questo e non di altro, di fotografare qua e non là, che fa trovare la refurtiva già spaparanzata sul tavolo. E quindi, se si vuole conservare questo privilegio, bisogna imparare uno stile narrativo. Che dica tanto, ma che nasconda anche molto altro, soprattutto l’unicità di un fatto, quella diversità, quella differenza specifica da cercare che per un giornalista dovrebbe essere il motivo principale per svegliarsi al mattino.

Naturalmente ognuno ha le sue parole. Io ho le mie. Quando mi accorgo di ripetere troppo parole o frasi, o anche lo stile del periodare, mi allarmo. Bisogna sempre essere autocritici verso ciò che si scrive. Mafe, ad esempio, ogni mese giustamente autodenuncia le parole che sente di aver usato troppo.
Questa è un’attenzione simile a quella dello scrittore, ma diversa, perchè ha obiettivi in parte diversi. Usare troppo una parola significa sempre, tanto o poco, allontanarsi da un fatto per assecondare un giudizio, e intendo questa parola in senso filosofico, cioé qualcosa che è già nella nostra testa e magari contemporaneamente nella testa di tanti. Ma la realtà è altro: e vorrei ricordarlo sempre, anche quando sento che è comodo, economico, accettabile, ragionevole trascurarlo.

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