Vedo che il sondaggio proposto ha avuto un certo successo. Nei commenti all’ultimo post ci sono così tanti spunti che ho pensato di inaugurare una categoria apposta. La chiamo Parole, non fatti perché le parole che sceglierò sono spie linguistiche della distanza del giornalista dal fatto di cui dovrebbe parlare come testimone o avendo sentito i testimoni o le persone più vicine ad esserlo. Una distanza che spesso rimane (è questo l’aspetto più interessante della faccenda) anche quando chi scrive sarebbe davvero in grado di farlo da testimone: ma preferisce non esserlo davvero, preferisce non dare tanto peso all’esserci. Preferisce correre sui binari certi di uno stile narrativo già concluso in parole e frasi scritte e riscritte, lette e rilette; e sente probabilmente in questo modo di essere più professionale.
Un cronista giovane ma di una certa esperienza una volta mi ha spiegato come faceva a parlare di un incidente stradale per un’intera cartella partendo dalle classiche cinque W molto scarne. Gli incidenti avvengono spesso nei soliti posti, soprattutto quelli fuori dalle autostrade, quindi a seconda del dove si può presumere qualcosa del come. Poi ci sono frasi che vanno bene, che sono collaudate, come l’auto, per motivi ancora non chiari, ha cominciato a sbandare; la celeberrima asfalto reso viscido dalla pioggia e così via. Me lo raccontava non con espressioni ammiccanti, ma con un certo orgoglio. Si fa così, ne era convinto.
Forse ha ragione lui, in parte: ci sono fatti minimi che si ripetono più o meno uguali. E non c’è sempre il tempo e l’interesse per renderne l’unicità che certo andando a vedere bene si può anche trovare, ma… perché farlo, nella grande maggioranza dei casi?
Il problema però è che questo atteggiamento di sufficienza poi si estende a tanti altri casi e corre il rischio di essere tramandato e insegnato come aspetto della professionalità. Non stupirsi di nulla, perché si sa come vanno le cose, si vede sempre dietro le quinte, si vede l’attore che si leva il trucco, il politico che parla fuori dai microfoni, il funzionario di polizia che chiede di parlare di questo e non di altro, di fotografare qua e non là, che fa trovare la refurtiva già spaparanzata sul tavolo. E quindi, se si vuole conservare questo privilegio, bisogna imparare uno stile narrativo. Che dica tanto, ma che nasconda anche molto altro, soprattutto l’unicità di un fatto, quella diversità, quella differenza specifica da cercare che per un giornalista dovrebbe essere il motivo principale per svegliarsi al mattino.
Naturalmente ognuno ha le sue parole. Io ho le mie. Quando mi accorgo di ripetere troppo parole o frasi, o anche lo stile del periodare, mi allarmo. Bisogna sempre essere autocritici verso ciò che si scrive. Mafe, ad esempio, ogni mese giustamente autodenuncia le parole che sente di aver usato troppo.
Questa è un’attenzione simile a quella dello scrittore, ma diversa, perchè ha obiettivi in parte diversi. Usare troppo una parola significa sempre, tanto o poco, allontanarsi da un fatto per assecondare un giudizio, e intendo questa parola in senso filosofico, cioé qualcosa che è già nella nostra testa e magari contemporaneamente nella testa di tanti. Ma la realtà è altro: e vorrei ricordarlo sempre, anche quando sento che è comodo, economico, accettabile, ragionevole trascurarlo.