C’è una bella differenza tra questa richiesta e quest’altra, anche se l’oggetto è lo stesso e uguale sarà, credo, la risposta.
In questi giorni mi è capitato di ascoltare una persona che si lamentava di questa durezza della Chiesa.
Io non ho ribattuto. Non ribatto mai quando qualcuno mi rappresenta una sofferenza, o una presunta sofferenza, causata direttamente da una scelta della Chiesa o dall’azione di un uomo di Chiesa, perché mi dispiace davvero. Lascio sfogare. Intanto registro un bisogno enorme di sfogo contro la Chiesa. Un dato culturale e sociale che non riesco a spiegarmi. E naturalmente non mi bastano le spiegazioni di chi si sfoga, perché sono chiaramente, in larga parte, irrazionali. È uno strano groviglio quello che mi mettono davanti. Un groviglio affettivo, impastato di tante cose diverse.
Mentre gli altri si sfogano, penso alla mia situazione. Dal loro punto di vista anch’io dovrei o potrei essere arrabbiato. Io ho fatto delle scelte personali che non sono compatibili con quella “purezza” necessaria per accostarsi all’Eucarestia, ancora una volta richiamata da Ratzinger. Lo so, e lo accetto. Senza rabbia, senza polemica. Quasi quasi mi farebbe rabbia pensare che un domani le “regole” potrebbero cambiare. A me piace la chiarezza di queste disposizioni. Sono un punto fermo, so come regolarmi. Mi piace anche l’accento che Ratzinger ha messo sul desiderio che può salvare. Per me è straordinario, perché costringe a chiedersi a cosa si tiene davvero, in quell’insieme di cose che chiamiamo Cristianesimo. Chi in questi giorni si sfogava con me mi diceva: la mia amica Tizia è sempre stata fervente cattolica poi ha dovuto divorziare perchè il marito… (motivi validissimi, ragionevoli, umanamente accettabili) e si è ricostruita questa famiglia che è meravigliosa perché… (nessun motivo per non crederle). “E ora questa donna così credente e buona è limitata nella sua libertà, perché non può più fare la comunione e leggere le letture a messa e sedersi in prima fila. Per chi ci crede fare la comunione è il massimo, no?”
Sì. E no. Ma come faccio a spiegarlo? Come faccio a spiegare che qualsiasi forma, anche quella che sembra più santa, può diventare una trappola mortale?
Allora sorrido, e dico che io non sono mai stato sposato e quindi non sono neanche divorziato, ma non posso più fare la comunione. Quella stessa comunione che ho fatto più o meno fino ai trent’anni con partecipata convinzione. E probabilmente non potrò farla mai più, anche se porre limiti alla provvidenza e alla speranza è un peccato che non voglio commettere, quindi penso: sì è possibile, ma non molto probabile. E nonostante ciò, non mi sento segregato, emarginato, cristiano di serie B o cose simili. E addirittura sono contento che Ratzie abbia ribadito una verità così semplice e lineare. Lo trovo edificante, proprio per me, per la mia situazione.
Ora lo stupore e la domanda giusta, finalmente, balenano sul volto dell’interlocutore.