Cronachesorprese

5 Ottobre 2006

Nessuno tocchi i veri ignoranti

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Mi inserisco anch’io nel dibattito nazionale sulla Pupa e il secchione. Giusto un momento, alla chetichella, butto lì una cosa a cui tengo poi me ne vado, richiudo la porta e lascio sociologi, psicologi, ommini de curtura e impiegati alla macchinetta del caffé ad azzuffarsi.
A cosa tengo? Agli ignoranti. Quelli veri. L’ignoranza, l’ammissione di ignoranza, è una risorsa dell’intelligenza. Se devo pensare a tutte le circostanze della mia vita in cui ho tratto del bene e del nuovo sapere dalla consapevolezza della mia ignoranza, non finisco più. Parlo dell’ignoranza  ravvisata in me e negli altri, come debolezza umana che merita solidarietà non saccente.
Io, che so di essere ignorante in tante cose, e soffro per tante cose che non so e che vorrei sapere, non sopporto di veder ridicolizzata l’ignoranza. Una sedicente sosia di Paris Hilton, di cui avrei volentieri ignorato l’esistenza, che non riconosce le fotografie degli uomini più noti del secolo scorso, non sa quante stelle ci sono nel sistema solare e vuole anche avere ragione, non è ignorante.
Possono esserci tante spiegazioni, ne butto giù alcune, scegliete voi quella che vi piace di più:

– presa per il culo, lo facciamo per lo spettacolo
– disturbo cognitivo
– bizzarro orgoglio di classe: io so’ pupa, non mi occupo di queste cose
– pigrizia

Io propendo per un misto di tutte e quattro e richiamo l’attenzione soprattutto sulla numero tre. Che spiega tante cose. Se una non completa la frase "Camillo Benso Conte di Ca…", anche dopo reiterati aiutini e spiegazioni, non è perché non riesce, è perché non vuole. Perché si vergogna. Io, pupa, dovrei far vedere in diretta nazionale che detengo queste nozioni da sfigati? Perché poi si tratta della pura nozione, che come è noto non ha molto a che fare con il sapere o il non sapere. Posso non sapere nulla o quasi nulla di Cavour (e questa sarebbe la vera, sana, rispettabilissima ignoranza) , ma non posso non avere nella testa il suo nome che suona. Questa è un’osservazione che hanno fatto in molti, io la spiego anche così: un bizzarro orgoglio di classe, perverso e paradossale.

Avete altre concause da indicare, oltre a queste quattro? Ditemi. Ma lasciate stare la vera, santa ignoranza.

2 Ottobre 2006

Olé

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Una vera miniera per i testi delle canzoni in lingua spagnola:
lacuerda.net
La cosa divertente è che comprende le traduzioni in spagnolo di alcune canzoni italiane, non tutte a dire il vero indimenticabili, ad esempio Mister Mandarino dei Matia Bazar.

1 Ottobre 2006

Black Dahlia

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Fare un film su un libro di Ellroy credo che sia molto facile e molto difficile. Molto facile perché Ellroy è un costruttore di dialoghi di grande abilità: dialoghi fatti di battute brevi e fulminanti che incollano il lettore alla pagina, con dentro azione, psicologia, invenzioni verbali, insomma tutto quello che serve a una buona sceneggiatura. Molto difficile perché le trame sono intricate e aspirano a seguire  la stessa vicenda da decine di punti di vista diversi, a rendere conto di quella complessità in cui si imbatte un investigatore che tenta di dipanare una matassa. Ellroy ama scrivere da investigatore storie di investigatori per elaborare il suo trauma personale (sua madre è stata uccisa quando lui era bambino).
Non è facile scegliere il punto di vista giusto per raccontare la storia. Nel film non è resa benissimo, a mio parere, l’ossessione per la Dalia dell’agente Lee Blanchard. C’è solo come ingrediente tra i tanti, non ha la centralità che ha nel libro. Ed è un’occasione persa perché, a giudicare da tutto quello che si trova in rete, questa donna realmente vissuta e realmente uccisa nel modo descritto da Ellroy ha continuato a ossessionare molti, per sessant’anni: raccontare bene l’ossessione di Blanchard poteva valere come paradigma.
Brava la Johansson; bravissima, nel poco spazio che le viene concesso, Mia Kirschner. Gli interpreti maschili fanno il loro, ma questa è una storia su una donna e su altre donne che le girano intorno: gli uomini si muovono di conseguenza. Una donna che nella sua debolezza e fragilità fa succedere tante cose. Lei è una nullità, è una comparsa che spera di sfondare a Hollywood e si muove in un sottobosco di personaggi mediocri, ma viene desiderata e odiata con impeto e rabbia titanici; invidiata al punto da evocare abissi di abiezione e malvagità. Non lascia indifferenti, e non lascera mai più indifferente nessuno: la Dalia muove qualcosa di profondo. Forse è una tragedia alla Marylin ante litteram, forse Elizabeth Short è morta dello stesso male oscuro di cui è morta la Monroe, il suo opposto solo per il successo e per il colore dei capelli: ma, ai tempi in cui Elizabeth Short moriva, Norma Jean forse non gravitava tanto lontano da lei. Il lato oscuro di Hollywoodland ha inghiottito entrambe, secondo tempi e modi diversi.  

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