Cronachesorprese

29 Ottobre 2010

Figli delle stelle

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Giuro che mi ero già chiesto, in qualche momento degli ultimi dieci anni, per quale motivo il successo di Alan Sorrenti di fine anni settanta non fosse ancora stato ripescato ufficialmente dalla macchina della nostalgia, sempre più scontata e sempre meno sorprendente. Il film che si è preso questa incombenza è divertente, ha qualche spunto degno di riflessione, ma è ben lontano dal convincere.
Dal punto di vista puramente narrativo la vicenda chiede fin da subito allo spettatore di perdonare troppe approssimazioni. Non si capisce nulla delle motivazioni dei personaggi. Non si capisce nulla di cosa veramente li metta insieme e faccia incrociare i loro destini. Si strappano sorrisi e si invoca la simpatia nel nome del “siamo sconclusionati, quindi tanto italiani, quindi tanto raccontabili e perdonabili, almeno al cinema”. Le buone idee non mancano ma sono un po’ troppo annacquate. Il livello della recitazione è un pochino sopra a quel mediocre standard televisivo a cui ci siamo purtroppo dovuti abituare anche davanti ai grandi schermi di casa nostra, e questa può essere forse una buona notizia, ma solo in prospettiva (per la prossima leva di attori, diciamo) perché la Pandolfi e Favino si possono giusto guardà ma continuano a essere lontanucci dalla Melato e da Giannini, tanto per fare un esempio. Un pochino meglio Tirabassi nella parte del sottosegretario rapito.

Sono appena uscito dal cinema, non ho ancora letto nessuna critica, ma per un film che parla di un rapimento “politico” fatto come se i soliti ignoti fossero entrati in clandestinità spero che ci vengano risparmiate le considerazioni su quanto sono lontani gli anni in cui i rapimenti erano veri e tragici e i giovani erano davvero impegnati. Cosa diranno, che “figli delle stelle” è l’inevitabile nemesi, ciò che rimane della memoria della stella a cinque punte?
Non voglio fare il cattivo, mi sono divertito. Un po’ furbetto nel complesso, un tentativo di far parlare con poco, ma un prodotto tutto sommato gradevole. Volevo solo fare un prolegomeno a ogni futura critica a questo film che si presenterà come analisi sociologica, come se questa storia potesse essere davvero rappresentativa di qualcosa di attuale. Di cosa? Della voglia di ribellione sempre frustrata nell’era dell’antipolitica? Io non so come possa scattare l’identificazione, l’immedesimazione.

Facciamo così: converserò volentieri intorno a questo film con chiunque mi rilascerà una dichiarazione scritta in cui si impegna a non usare le parole “sogni”, “ideali”, “ideologie”, “secolo scorso” e rinuncia a usare una qualsiasi frase del testo della canzone per commentare. Parliamoci chiaro. “Addio ragazza ciao, io non ti scorderò dovunque tu sarai, dovunque io sarò” non è un passaggio commovente. Non ho mai conosciuto nessuno che si sia commosso ascoltandolo o abbia meditato su quanto si senta sperduto nella notte che ci gira intorno. Alan Sorrenti era al di là del bene e del male e il testo della canzone era una puttanata, ci siamo affezionati e ci piaceva esattamente per questo.

31 Maggio 2010

Fratelli nel blues

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Il 16 giugno 1980 uscì negli Usa The Blues Brothers. Tre mesi dopo (il 19 settembre) il film di John Landis arrivò anche nelle sale italiane.

Nello stesso anno avevo cominciato a suonare. Un inizio in blues, seguendo gli accordi e le semplici note di un esercizio del maestro di chitarra di mio fratello. Avevo quattordici anni. Il ritmo del blues era il ritmo del cambiamento, della novità. Anche se non era di moda: ma io non sono mai stato alla moda. Il blues mi piaceva perché era un classico sempre nuovo; perchè sapeva essere dirompente senza orpelli. Mi piaceva ascoltare il blues rurale, le chitarre nelle incisioni d’epoca che si trovavano a buon mercato nei negozi di dischi: Leadbelly, Gary Davis (quello di Cocaine), Blind Lemon Jefferson, Big Bill Broonzy. Poi c’era l’italiano Roberto Ciotti che mi faceva impazzire con il suono metallico della sua Dobro, uno sferragliare che incrociava magnificamente con l’armonica e il piede battuto amplificato usato come strumento.

I Blues Brothers mi introdussero alle meraviglie del blues elettrico e del rhytm’n blues. Ma c’era qualcosa d’altro che mi conquistava in quel film. C’era questa idea che i musicisti blues, soul, insomma quelli che avevano quella “marcia” inconfondibile (e il film si diverte molto a esemplificare le differenze tra chi aveva il dono del blues e chi no) formassero una comunità trasversale, gente che si prendeva e si perdeva, si ritrovava e suonava. Non conoscevo Ray Charles, Aretha Franklin, Cab Calloway; James Brown lo conoscevo appena; ma dal film capii subito che erano grandi e la loro musica gloriosa, seppure confezionata in una storia e in scene quasi dimesse. Penso al magnifico, ironico understatement dei Blues Brothers e penso che anche Elvis quando faceva il ragazzo del popolo nei suoi filmetti non fu mai così convincente come Aretha nel suo fast food o Ray nel suo negozio di strumenti musicali. E John Lee Hooker per strada? Brividi. Con tutto il rispetto: i film di Elvis erano dei pretesti per far sentire un po’ di canzoni dell’idolo del rock nascente. The blues brothers è stato un capolavoro miracoloso che ha fuso attori e musicisti in un tutt’uno. È qualcosa che è accaduto e che non si potrà ripetere.

La mia bluesrevolution fu improvvisa e felicemente irreversibile. Non molto tempo prima i Bee Gees di Spirits having flown mi avevano abbastanza scosso e facevo fatica ad ammetterlo a me stesso e agli altri. Alle medie ero un “classicista” e melomane convinto che riproduceva con esiti neanche stupidi arie di opera con il flauto dolce, attirando i lazzi seminascosti dei compagni e lasciando didatticamente contenta ma tutto sommato perplessa quella povera donna della mia insegnante di musica. Per un ragazzo tra i 12 e i 14 era dura spiegare agli amici che mi piacevano allo stesso modo Verdi, Puccini, i Bee Gees e Roberto Ciotti. Non ci provai che qualche volta, mi limitai per lo più a pensarlo. Oggi non saprei dire perché mi sono imposto questa autoeducazione musicale, ma qualche risultato penso di averlo ottenuto. Ho sempre ascoltato la musica per la musica e non per un’esigenza di “rappresentanza” o di identificazione in una tribù.

Fu facile, cionondimeno, identificarmi nei Fratelli Blues. Due corvacci del tutto fuori moda come me. Che andavano alla funzione domenicale e vedevano la luce ma imprecavano contro la suora pinguina. Imprecavano ma poi si dannavano per salvare la loro vecchia scuola orfanotrofio, l’unico luogo concreto a cui potevano appartenere, anche da ladruncoli senza arte né parte. Che uscivano di prigione ma erano in missione per conto di Dio. E per quella missione senza nessuna velleità rivoluzionaria andavano controcorrente. Mi fece riflettere su questo qualche anno dopo un amico, RG, con una recensione improvvisata che non dimenticherò mai (“I Blues Brothers? È un film religioso!”). Oggi ne sono convinto ancora di più: l’essenza della religiosità sono i BB che vanno contro il fascino dell’aggregazione che offre stereotipi in cambio della scomoda individualità; contro le nicchie limitate ma potenti dei nazisti dell’Illinois e dei terribili seguaci del “Country & Western” style. Che corrono verso il destino, nonostante la polizia. Una polizia strana, non malvagia. O meglio malvagia quanto può essere malvagio un globulo bianco che si getta all’inseguimento del batterio in libera circolazione nei vasi sanguigni. Per tutto il film la polizia è solo una funzione automatica. È una rappresentazione perfetta, geniale dell’ottusità tecnocratica, dell’eclissi del libero arbitrio. Quelle auto che inseguono e che alla fine si ammonticchiano una sull’altra senza senso. Elicotteri. Polizia a cavallo. Squadre speciali. Per inseguire… una vecchia auto della polizia. Perché Elwood, il giorno in cui suo fratello Jake esce di galera, lo va a prendere con un’auto della polizia. Perché la vecchia Cady (“dov’è la caaady…“) l’ha data via per un microfono. Non saprei dire se è più anticapitalista o antimarxista: questo annichilimento del valore di scambio della merce mi sembra letale per qualsiasi teoria economica. I Blues Brothers erano una vera calamità per l’America che si stava arrendendo all’arrivo dei conformisti anni ottanta.

Il mio compagno di banco era il figlio del proprietario di un cinema. Quando Blues Brothers uscì cominciò a magnificarmelo, a raccontarmene ampi stralci. Mi raccontava spesso dei film nuovi che vedeva, ma capii subito che Blues Brothers era diverso. Era un film per noi. Lui rideva e rideva a raccontarmi le stesse scene. Mi disse che l’aveva visto quattro, cinque, sei volte, continuando a ridere e a raccontare. Prima del film fu la sua risata a convincermi. Ero già un fratello blues prima di vedere che razza di fenomeni erano Jake & Elwood. A molti in Italia non piacquero subito quell’ironia e quella comicità. A noi sì, la adottammo subito e ci accompagnò per tutta l’adolescenza. Ci alleggeriva un po’ e faceva capire che la vita, con tutte le sue difficoltà, è soltanto una strada che ci separa dalla prossima occasione per suonare insieme. Qualsiasi cosa vogliate mettere al posto della parola “suonare”. E che sia in un Palasport o in un carcere, in fondo, non fa poi tanta differenza.

4 Maggio 2010

Agorà

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Prendiamolo come il contrappasso di decenni di clichet cinematografici sui martiri cristiani. Agorà di Amenabar però sembra davvero voler instaurare nuovi clichet. È accurato storicamente? Forse, abbastanza. Ma anche i film degli anni cinquanta sulle persecuzioni di Nerone non raccontavano molte balle: romanzavano un po’, ma su basi storiche indiscutibili. È un film “coraggioso”? E perché, cosa ha rischiato a parte il flop ai botteghini?

È un bel film, niente da dire. Ma i limiti che ha sono anche i limiti che si dà? Non lo so. Vorrei capire se l’Ipazia idealizzata del film è lontana dall’Ipazia storica volutamente o no. Le lezioni di astronomia nel film sono avvincenti ma sono del tutto immaginarie, come immaginaria (e direi anacronistica) è la posizione di Ipazia nei confronti del cristianesimo e delle religioni in generale. Se i ricordi dell’esame di filosofia antica non mi ingannano Ipazia era vicina ai neoplatonici, quindi non proprio atea; e ad ogni modo l’ateismo e lo scetticismo antichi erano tutt’altra cosa rispetto all’ateismo illuminista, mentre l’Ipazia interpretata dall’ottima Rachel Weisz sembra abbia studiato Voltaire. Sarà forse perchè è stata proprio la storiografia settecentesca a innamorarsi della scienziata martire e a dipingere Cirillo di Alessandria (che, vorrei ricordare, è stato proclamato Dottore della Chiesa nell’ottocento, non nei cosiddetti secoli bui) come un perfido demagogo vendicativo e assetato di potere (Gibbon in particolare). Le fonti dei consulenti storici di Amenabar sono probabilmente quelle.

Il regista ha detto che Agorà non è un film contro il cristianesimo ma un film contro il fondamentalismo religioso. Voglio credergli, ma lo invito ad approfondire il tema con un bel documentario sulle uccisioni di cristiani caldei a Mosul, o sulle persecuzioni in Sudan, sempre a danno di cristiani. Nel caso, non avrà bisogno di ipotizzare o immaginare alcunché o di lanciarsi in anacronismi spericolati e suadenti.

6 Febbraio 2010

Avatar

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Cosa sapevamo prima di andare a vedere Avatar

Il cinema non ha mai avuto bisogno né avrà mai bisogno della terza dimensione per catturare ed emozionare. Dal punto di vista tecnico bastano la buona fotografia e l’uso sapiente della macchina da presa. Non verrà mai a noia.
Da una parte il cinema, dall’altra il 3D e la computer grafica applicati ai giochi elettronici. Due parti che da tempo ormai hanno trovato un’area di intersezione e di scambio. Nel gioco del dare e dell’avere la parte “cinema” ha dato più di quanto ha ricevuto. Almeno fino ad oggi. Nessun film campione d’incassi, nessun promesso “evento” per la spettacolarità degli effetti speciali mi ha mai convinto del contrario. Certi film sono spot per i giochi elettronici e vengono costruiti per questo. Devono far cominciare un’esperienza che deve continuare su una console.

Pandora. L’idea di essere trasportati su un altro pianeta, in un mondo del tutto fantastico rappresentato fin nei minimi particolari e reso ancora più vivo dal 3D, è l’unica vera aspettativa prima della visione.

No, non l’unica. C’è anche il riconoscimento della capacità di Cameron di trovare compromessi accettabili tra spettacolarità e interesse della storia. Però trailer, anticipazioni, discussioni tra ben informati disilludono in parte, poiché sono abbastanza concordi sul fatto che andremo ad assistere all’ennesimo film sugli indiani buoni travolti dai colonizzatori cattivi. Ce ne facciamo una ragione e, pur di non mancare all’evento, compriamo il biglietto (salato) e infiliamo gli occhialini di ordinanza.

La presenza di Sigourney Weaver nel cast significa la riproposizione di un topos cinematografico ormai noto che vado telegraficamente a riassumere: donna con palle catapultata somewhere out in space stop / situazione dimmerda causata da a – incidente, b – decisioni scellerate ingordi finanziatori spedizione incuranti human casualties, c – incazzatura aliena stop / lotta disperata furibonda mostra bicipiti addominali sudore cannottierina sgualcita stop / Non fraintendetemi adoro Sigourney stop

Cosa abbiamo capito vedendo Avatar

Prima delle inutili e scontatissime sequenze di guerra e distruzione avevamo quasi creduto alla possibilità del “viaggio”. La scena dello smarrimento di Jake Sully nella foresta, del combattimento notturno contro le belve cinoformi e del conseguente incontro con Neytiri pareva introdurre bene nel nuovo mondo. Apprezzabile l’impegno nel disegnare le forme di vita pandoriane, animali e vegetali.

Eccessiva invece la “verticalizzazione” continua della prospettiva. I nativi saltano da decine di metri, fanno giochi spericolati tra gli enormi alberi e slalom aerei tra le “montagne fluttuanti” a cavallo di uccellacci che sembrano pterodattili. Se la verticalizzazione voleva essere funzionale all’effetto “immersione” nel 3D per me ha sortito l’effetto opposto: è troppo. Mi chiedo: il 3D non dovrebbe aiutare lo spettatore a stare dentro il film, non dovrebbe dargli quella spintarella per superare il diaframma-schermo? Allora dovrebbe cercare di esaltare gli aspetti e le ambientazioni che danno l’illusione di starci con le proprie gambe, non con le ali che lo spettatore non ha (il che non significa rinunciare a volare, sia chiaro). Ho visto A Christmas Carol prima di natale. Non a tutti piace quel tipo di animazione, a me piace. È finora il miglior film in 3D che ho visto, perché l’effetto profondità è nei limiti del possibile al servizio della storia e non calca gli effetti 3D sugli aspetti onirici, che pure sono abbondanti, ma su quelli che danno dei punti di riferimento concreti allo spettatore. Il risultato è un’ottima ambientazione nella Londra dickensiana. In Avatar invece il 3D è quasi esclusivamente usato per dei giri di giostra. Zemeckis batte Cameron nella guerra del 3D: un po’ come i nativi pandoriani che battono i marines.

Cameron aveva le risorse, il credito e il tempo necessari per fare qualcosa di memorabile e all’avanguardia nell’uso del 3D. Aveva due possibilità: mettere la sua sperimentazione al servizio della scenografia o al servizio della storia. Ha scelto la prima strada. Una scelta rispettabile, ma che non può essere pienamente condivisa da chi ama davvero il cinema. Dicevo che Cameron ha sempre trovato ottimi compromessi tra buone storie e sperimentazione tecnica: con Avatar no, questo obiettivo almeno l’ha fallito. Se fossi un regista, anche un regista votato alla sperimentazione e con il mandato di far impazzire i botteghini, non muoverei un dito senza una buona storia da raccontare. Tutto il resto può essere realizzato a livelli tecnici mostruosi, ma senza una buona storia è solo fumo negli occhi. Questa è la legge immutabile del cinema che nessuna avanguardia ha mai potuto sovvertire e nessuna innovazione tecnica ha mai potuto eludere.

Con certe donne pallute mai dire mai, ma forse con questo film la sessantenne Sigourney Weaver ha passato il testimone come star di film d’azione e prossimamente interpreterà una bibliotecaria zitella dell’Arkansas o una casalinga obesa del New Hampshire (ingrasserà apposta). Vista l’erede, siamo contenti: il 3D rende almeno giustizia alle… profondità recitative di Michelle Rodriguez, che gioca una parte secondaria ma lascia il segno.

Quanto al festival dell’ecologismo panteista a buon mercato inutile spendere una parola di più di tutte quelle che già si trovano in migliaia di discussioni online. Apprezzabile il tentativo di descrivere le connessioni tra gli esseri viventi di Pandora come “sinapsi” (capaci di trasmettersi “dati”), quindi di presentare il mondo fantastico come allegoria della rete. Poteva essere una buona via di fuga dall’ecologismo e invece rimane solo una suggestione buttata lì, a fare buon peso. Per il resto questi indigeni sono troppo simili ai nativi d’America o meglio all’immagine che ne abbiamo dopo cent’anni di cinema, di cui quaranta dalla parte degli indiani.

PS
Un ultimo desiderio. Fioccheranno innumerevoli parodie o rivisitazioni irriverenti del film. Tinto Brass ha già annunciato Chiavatar, primo film erotico in 3D. Io però attendo con ansia il doppiaggio a una sola dimensione (dialettale) della Bernarda Production, quella di Mazinga Zetto.

29 Novembre 2009

Avenue Q

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C’è modo e modo di distruggere i luoghi comuni. Di questo musical si dice che è politicamente scorretto e non so se è proprio così. Certo usa parole e situazioni “sconvenienti” e non allude mai, dice chiaro. Cose permesse ai pupazzi e non agli attori in carne e ossa, si dice anche. Ma vi sfido a distinguere davvero i pupazzi dagli infaticabili folletti che li muovono, a sceverare l’umano e il burattinesco. Se i muppet erano dei mostri di simpatia e di ironia, i personaggi di Avenue Q lo sono il doppio. “Arrivano” subito, non puoi resistere, sono già alla prima smorfia i compagni di sempre. I neuroni specchio degli spettatori non sanno decidere chi tra l’attore e il pupazzo è più simile o empatico a noi e impazziscono, ma senza psicodrammi. Anzi alla fine dello spettacolo diresti che hanno l’aria di essersi divertiti parecchio, come dopo un giro di fumo di quello buono.
Ma in una rappresentazione così calda e così poco allegorica, di maschere che “la verità la dicono ridendo” non ce ne sono. Per questo non credo che sia come molti affermano: Avenue Q non può permettersi di essere scorretto e volgare nascondendosi dietro ai pupazzi. Avenue Q affronta tanti problemi che ai più piace considerare problemi “attuali”: il razzismo, l’omofobia, la disoccupazione, la povertà, l’emarginazione, la depressione. E naturalmente il problema dei problemi: internet :-) Su nessuno di questi argomenti il musical ha da dire qualcosa di nuovo, e non presume di farlo. Ma neanche dice o mostra nulla di rassicurante.
C’è una buona dose di ambiguità nel modo di chiamare il consenso e l’applauso. “Siamo tutti un po’ razzisti”; “Internet serve al porno”. Questo è però anche il musical della crisi anche se è stato scritto qualche anno prima dei noti problemucci di Wall Street (perché le crisi si manifestano nella vita della gente prima che scoppino le bolle speculative): “Che sfiga che ho – Per oggi è così”. Tutti i giudizi non sono scolpiti, rimangono appena sbozzati perché non c’è il tempo, non ci sono le risorse, non ci sono le energie umane per andare a cercare risposte più articolate nei grandi sistemi etici. C’è solo l’urgenza gridata in tutti i modi (anche attraverso i pupazzi, anzi ancora meglio attraverso di loro) di una compagnia convincente. E sorridente, che per un musical è il minimo; ma sorridente a ragion veduta, che in un musical non è proprio scontato.

Ho cominciato a guardare spezzoni di Avenue Q in giro per la rete più di due anni fa, su segnalazione di un amico. Mi ha colpito subito e sono stato contento di vederlo questa settimana nella versione italiana, anche se la traduzione non è sempre convincente. Consiglio di andarlo a vedere, se capita. Gli autori dicono che va bene anche per i bambini accompagnati e forse hanno ragione. Ma i genitori non facciano l’errore di fare gli scandalizzati o (peggio ancora) gli imbarazzati di fronte ai “pupazzi nudi” (come dice la locandina dello spettacolo) che sul palco ne dicono e soprattutto ne combinano di tutti i colori. Si lascino andare e “si scompiscino”, come direbbe Totò. Il miglior esempio possibile, ne sono convinto. A spiegare, delimitare, contestualizzare ci andrà il tempo che ci va.

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