Cosa sapevamo prima di andare a vedere Avatar
Il cinema non ha mai avuto bisogno né avrà mai bisogno della terza dimensione per catturare ed emozionare. Dal punto di vista tecnico bastano la buona fotografia e l’uso sapiente della macchina da presa. Non verrà mai a noia.
Da una parte il cinema, dall’altra il 3D e la computer grafica applicati ai giochi elettronici. Due parti che da tempo ormai hanno trovato un’area di intersezione e di scambio. Nel gioco del dare e dell’avere la parte “cinema” ha dato più di quanto ha ricevuto. Almeno fino ad oggi. Nessun film campione d’incassi, nessun promesso “evento” per la spettacolarità degli effetti speciali mi ha mai convinto del contrario. Certi film sono spot per i giochi elettronici e vengono costruiti per questo. Devono far cominciare un’esperienza che deve continuare su una console.
Pandora. L’idea di essere trasportati su un altro pianeta, in un mondo del tutto fantastico rappresentato fin nei minimi particolari e reso ancora più vivo dal 3D, è l’unica vera aspettativa prima della visione.
No, non l’unica. C’è anche il riconoscimento della capacità di Cameron di trovare compromessi accettabili tra spettacolarità e interesse della storia. Però trailer, anticipazioni, discussioni tra ben informati disilludono in parte, poiché sono abbastanza concordi sul fatto che andremo ad assistere all’ennesimo film sugli indiani buoni travolti dai colonizzatori cattivi. Ce ne facciamo una ragione e, pur di non mancare all’evento, compriamo il biglietto (salato) e infiliamo gli occhialini di ordinanza.
La presenza di Sigourney Weaver nel cast significa la riproposizione di un topos cinematografico ormai noto che vado telegraficamente a riassumere: donna con palle catapultata somewhere out in space stop / situazione dimmerda causata da a – incidente, b – decisioni scellerate ingordi finanziatori spedizione incuranti human casualties, c – incazzatura aliena stop / lotta disperata furibonda mostra bicipiti addominali sudore cannottierina sgualcita stop / Non fraintendetemi adoro Sigourney stop
Cosa abbiamo capito vedendo Avatar
Prima delle inutili e scontatissime sequenze di guerra e distruzione avevamo quasi creduto alla possibilità del “viaggio”. La scena dello smarrimento di Jake Sully nella foresta, del combattimento notturno contro le belve cinoformi e del conseguente incontro con Neytiri pareva introdurre bene nel nuovo mondo. Apprezzabile l’impegno nel disegnare le forme di vita pandoriane, animali e vegetali.
Eccessiva invece la “verticalizzazione” continua della prospettiva. I nativi saltano da decine di metri, fanno giochi spericolati tra gli enormi alberi e slalom aerei tra le “montagne fluttuanti” a cavallo di uccellacci che sembrano pterodattili. Se la verticalizzazione voleva essere funzionale all’effetto “immersione” nel 3D per me ha sortito l’effetto opposto: è troppo. Mi chiedo: il 3D non dovrebbe aiutare lo spettatore a stare dentro il film, non dovrebbe dargli quella spintarella per superare il diaframma-schermo? Allora dovrebbe cercare di esaltare gli aspetti e le ambientazioni che danno l’illusione di starci con le proprie gambe, non con le ali che lo spettatore non ha (il che non significa rinunciare a volare, sia chiaro). Ho visto A Christmas Carol prima di natale. Non a tutti piace quel tipo di animazione, a me piace. È finora il miglior film in 3D che ho visto, perché l’effetto profondità è nei limiti del possibile al servizio della storia e non calca gli effetti 3D sugli aspetti onirici, che pure sono abbondanti, ma su quelli che danno dei punti di riferimento concreti allo spettatore. Il risultato è un’ottima ambientazione nella Londra dickensiana. In Avatar invece il 3D è quasi esclusivamente usato per dei giri di giostra. Zemeckis batte Cameron nella guerra del 3D: un po’ come i nativi pandoriani che battono i marines.
Cameron aveva le risorse, il credito e il tempo necessari per fare qualcosa di memorabile e all’avanguardia nell’uso del 3D. Aveva due possibilità: mettere la sua sperimentazione al servizio della scenografia o al servizio della storia. Ha scelto la prima strada. Una scelta rispettabile, ma che non può essere pienamente condivisa da chi ama davvero il cinema. Dicevo che Cameron ha sempre trovato ottimi compromessi tra buone storie e sperimentazione tecnica: con Avatar no, questo obiettivo almeno l’ha fallito. Se fossi un regista, anche un regista votato alla sperimentazione e con il mandato di far impazzire i botteghini, non muoverei un dito senza una buona storia da raccontare. Tutto il resto può essere realizzato a livelli tecnici mostruosi, ma senza una buona storia è solo fumo negli occhi. Questa è la legge immutabile del cinema che nessuna avanguardia ha mai potuto sovvertire e nessuna innovazione tecnica ha mai potuto eludere.
Con certe donne pallute mai dire mai, ma forse con questo film la sessantenne Sigourney Weaver ha passato il testimone come star di film d’azione e prossimamente interpreterà una bibliotecaria zitella dell’Arkansas o una casalinga obesa del New Hampshire (ingrasserà apposta). Vista l’erede, siamo contenti: il 3D rende almeno giustizia alle… profondità recitative di Michelle Rodriguez, che gioca una parte secondaria ma lascia il segno.
Quanto al festival dell’ecologismo panteista a buon mercato inutile spendere una parola di più di tutte quelle che già si trovano in migliaia di discussioni online. Apprezzabile il tentativo di descrivere le connessioni tra gli esseri viventi di Pandora come “sinapsi” (capaci di trasmettersi “dati”), quindi di presentare il mondo fantastico come allegoria della rete. Poteva essere una buona via di fuga dall’ecologismo e invece rimane solo una suggestione buttata lì, a fare buon peso. Per il resto questi indigeni sono troppo simili ai nativi d’America o meglio all’immagine che ne abbiamo dopo cent’anni di cinema, di cui quaranta dalla parte degli indiani.
PS
Un ultimo desiderio. Fioccheranno innumerevoli parodie o rivisitazioni irriverenti del film. Tinto Brass ha già annunciato Chiavatar, primo film erotico in 3D. Io però attendo con ansia il doppiaggio a una sola dimensione (dialettale) della Bernarda Production, quella di Mazinga Zetto.