L’unanimismo dei media sulla “storica vittoria” in Irlanda è nauseante. Non ho dubbi che questa disgrazia arriverà anche in italia, ormai sono rassegnato. Vince il sentimentalismo, a danno della ragione e dell’amore: continuo a pensare che il progresso sia un’altra cosa.
Negli ultimi cento anni, proprio dall’inizio della prima guerra mondiale, abbiamo assistito a una lenta erosione di diverse forme di solidarietà: quella interfamiliare della società contadina, quella tra generazioni con la precarizzazione del lavoro che rende problematica la gratuità della trasmissione del “saper fare” dai vecchi ai giovani.
Il passaggio che stiamo vivendo è una guerra feroce, condotta con i colori dell’arcobaleno e una “felicità” tanto ostentata quanto posticcia, che ha come obiettivo la rottura della solidarietà più tenace e resistente di tutte, quella della famiglia nucleare. E si vuole arrivare alla rottura nel modo più subdolo, avanzando la pretesa di estendere quella solidarietà mentre in realtà viene diluita e allentata, operazione preliminare e necessaria al suo dissolvimento.
Il promotore vero di questa azione non è un movimento per i “diritti”, ma è il mercato. Il mercato ci vuole soli perché l’unica nostra identità riconoscibile non sia più un’appartenenza sociale, né un’appartenenza ideale, e neanche, finalmente, l’essere padri madri e figli, l’essere uomini e donne, l’essere maschi e femmine. L’unica nostra identità deve essere quella di consumatori. Anche di mode spirituali e di “nuovi diritti”, perché no.
Il figlio da soggetto d’amore diventa oggetto del desiderio, quindi comprabile come ogni prodotto, e la tecnologia e la legislazione sono solo uno strumento di questo passaggio. Lo vuole la maggioranza, ma quando i desideri della maggioranza sono allineati ai desideri del potere e del mercato a me si accende un campanello di allarme, per questo non riesco a condividere certi entusiasmi. Sarà che intorno ai vent’anni ho avuto la “sfortuna” di imparare qualcosa da Dante, Chesterton e Orwell che oggi mi rende poco adattabile ad alcune mutazioni antropologiche.
Siamo più soli, e lo siamo a un livello molto più profondo di quello che appare. La gaia bandiera e l’effimera esultanza in piazza coprono l’incapacità sempre più radicata di andare a scuola dalla realtà; stemperano e sfogano la rabbia e l’impotenza, il risentimento giuridico-ontologico da cui nascono. Bisogna essere adulti per non pretendere dalla legge ciò che non possiamo avere dalla natura, e noi (come società occidentale) adulti non lo siamo più. Una “medaglia” di famiglia non si nega a nessuno, è un “diritto”, certo, come dire di no? Ma se diventa una medaglia, un timbro, la famiglia cessa di essere ciò che è sempre stata. Questa non è una trasformazione, tantomeno un’evoluzione: è una neutralizzazione, un passaggio a una dimensione astratta e inoffensiva.
La famiglia diventa solo un nome, quello che la legge e il mercato definiscono. Non è più qualcosa di preesistente allo Stato e non può più resistere ai venti capricciosi del marketing valoriale. Non è più una compagnia profonda dell’essere, indipendente da scelte, gusti, esperienze: questa compagnia profonda, con il tempo, i nostri discendenti non l’avranno più. O meglio l’avranno, perché è condizione dell’esistenza, ma in un contesto che non la difenderà più come un diritto inalienabile, non la darà più per scontata. E dovranno fare fatica, fare un lavoro su se stessi per recuperarla. Per questo dico che siamo più soli. Spero che sia chiaro. A voi piace questa novità, questa “conquista”? A me no.
So qual’è una delle obiezioni che molti amici potrebbero farmi. Parlo di quelli che hanno vissuto e vivono la realizzazione di sé al di fuori dei legami e dei condizionamenti della famiglia di origine e hanno formato, o stanno formando, legami di solidarietà e di vita che “sembrano” non aver niente a che fare con quelle definizioni “forti” a cui mi sono richiamato, quando non addirittura generarsi per opposizione ad esse. Non sto parlando solo di omosessuali, parlo di esperienze diverse, solidarietà di affetto e di lavoro che vanno oltre gli schemi, il già visto e il già conosciuto. Vorrei che fosse chiaro: io tengo in grande considerazione tutte queste realtà, tutti questi tentativi, e non ho bisogno di dimostrarlo perché l’ho sempre documentato nei fatti e nel modo di condurre le mie relazioni.
Ma con tutta la simpatia (e, oso dire, l’amore) che provo per chi mette tutto l’impegno possibile per rompere degli schemi (cosa che anch’io nel mio piccolo, nella mia realtà cerco di fare) sono convinto che la famiglia non è uno schema. Può essere vissuta e interpretata come schema, e allora si possono anche fare dei danni, ma nel profondo non lo è. Mai.
Sono convinto che nessuna nuova esperienza può porsi come vera alternativa e allo stesso livello di quella particolare forma di società che è la famiglia e in cui ognuno di noi si trova per il semplice fatto di esistere. È un dato e non è un artificio, e nessuna ideologia potrà mai convincermi del contrario. Le cose possono anche andare male in quella “strana società”. Ma è connaturale a noi e alla nostra identità come lo è l’avere due braccia e due gambe.
Sembra retorica perché è troppo vero e incontrovertibile, non facciamoci il torto di appiattire questo discorso in uno slogan pro-family. Scrivo questa nota lottando contro definizioni preconfezionate, un po’ ci riesco, un po’ no. Per me lo stato deve essere abbastanza realista e umile da riconoscere questo dato e da accettare che la famiglia, intesa come società naturale formata da un uomo, una donna ed eventuali figli, è una realtà indisponibile a qualsiasi manipolazione, medica sociologica o legislativa che sia. Penso che se non c’è questo riconoscimento avviene che l’idea stessa di Stato e la definizione stessa di diritto cambiano nei fatti, senza che ce ne accorgiamo. Si cambia perché “altri” lo decidono. Non siamo noi a guidare questa transizione, anche quando votiamo a un referendum, anche se facciamo i militanti per l’affermazione dei nuovi diritti. Che diritti, a mio modesto e impopolare parere, non sono.
Siamo tutti dentro a un cambiamento di cui non siamo protagonisti, in ogni caso, perché è un cambiamento contro di noi, contro la nostra umanità profonda.
Non sono un apocalittico catastrofista, non penso che si apriranno voragini per strada o pioverà fuoco sulle città. Penso che saremo “soltanto” un po’ meno umani, ma ormai ci siamo abituati da poco più di duecento anni, no? Ditemi, vedete davvero qualcosa di diverso in questa nuova astrazione alla quale dobbiamo sottostare, come se non ne avessimo abbastanza? Io vedo il seguito di una disumanizzazione che ha ormai una lunga storia. “Così siamo finalmente liberi. Ci hanno tagliato le braccia e le gambe, e poi ci hanno lasciato liberi di camminare”. L’ha scritto Saint-Exupery, sì, proprio l’autore del Piccolo Principe, quello ordinariamente sminuzzato in tante sdolcinate e rassicuranti frasette da cioccolatino, proprio lui. L’ha scritto non molto tempo prima di morire, nel pieno della seconda guerra mondiale, in una lettera visionaria e profetica in cui spiegava, con la lucidità di scrittore e intellettuale non organico a nessun potere, che la guerra che anche lui stava combattendo era solo una fase più cruda e clamorosa di una guerra ben più profonda che si stava combattendo da molto tempo. “Mi è completamente indifferente essere ucciso in guerra. Di quello che ho tanto amato, che cosa resterà? Così come degli esseri, voglio dire dei costumi, delle intonazioni insostituibili, di una certa luce spirituale. Del pranzo in una fattoria provenzale sotto gli olivi, ma anche di Haendel. Me ne infischio delle cose che sopravviveranno. Quello che vale è un certo ordinamento delle cose. La civiltà è un bene invisibile perché si fonda non sulle cose, ma sugli invisibili legami che le uniscono l’una all’altra, in un dato modo e non altrimenti. Noi avremo dei perfetti strumenti musicali distribuiti in grande serie, ma dove sarà la musica? Se io vengo ucciso in guerra me ne infischio”.
Finora ho parlato a livello di puro buon senso, senza implicare le mie convinzioni “di parte”, diciamo. Poi c’è qualcosa di cui parla questo articolo, che è soltanto una conseguenza di tutto ciò che ho detto: i cristiani, i guastafeste, non hanno più diritto di cittadinanza. A sud le stragi, a nord la negazione degli spazi pubblici e della libertà di espressione. È tornato l’imperatore, siamo minacciati e siamo minoranza. La storia del cristianesimo insegna che sono questi i momenti in cui si separa il grano dal loglio. Tutto può ricominciare.