Il film di Marco Tullio Giordana si dice liberamente ispirato al libro di Paolo Cucchiarelli. Ma per quel poco che so di un tomo di settecento pagine che non credo leggerò mai, forse è il caso di dire che il libro è liberamente tradito dal film nella maggior parte dei punti chiave di una controversa ricostruzione. E sospetto che non sia un male. Ne è certo invece Adriano Sofri, che non ha gradito il film ma soprattutto ha disprezzato il libro, facendolo oggetto di quei sottili sarcasmi di cui è maestro. Il suo pamphlet istantaneo, scritto e pubblicato alla velocità della luce su un dominio acquisito apposta (43anni.it), è abbastanza interessante. La tesi della doppia bomba mi appare in effetti più bizzarra che suggestiva, e averla riproposta non è certo tra i pregi del film di Giordana.
Il merito maggiore è piuttosto l’aver regalato un ritratto un tantino idealizzato ma concreto (e umanamente interessante) del Commissario Calabresi a quarant’anni esatti dal suo assassinio. Mastandrea è bravo e credibile. Bravo anche Favino nella parte di Pinelli, niente male gli altri. Bravo il regista a rendere la crescente tensione che i protagonisti assorbono come spugne dall’ambiente, dalla pressione dei politici e delle piazze, dal clima straordinariamente violento di quei giorni; tensione che trova il primo dei suoi tragici esiti la sera del 15 dicembre in un ufficio della Questura di Milano, scena ricostruita con una certa efficacia. Interessante anche il passaggio della ricostruzione del processo per diffamazione intentato da Calabresi contro Lotta Continua.
Chiudo con una parentesi personale che forse non è molto pertinente, ma chi ama il cinema sa che l’esperienza cinematografica dello spettatore indigente si intreccia inevitabilmente con i ricordi personali. Quando siamo entrati all’Ariston a vedere questo Romanzo di una strage ho notato un sacchetto abbandonato in mezzo alla fila di poltrone davanti alla nostra. Le luci in sala erano ancora accese. Mi sono seduto e ho cercato di non pensarci, ma ho resistito solo pochi minuti: mi sono alzato, ho preso il sacchetto con cautela e l’ho consegnato alla maschera all’ingresso. Era pesante, chiuso con un nodo e, per quanto abbia cercato di sbirciare, non sono riuscito a capire cosa ci fosse dentro. Curioso, no? Curioso trovare un oggetto così proprio quando si va a vedere un film sulla strage di Piazza Fontana. Curioso rimanere inquieti, curioso non poter sopportare l’idea di stare per l’intera durata della proiezione con il pensiero di quell’involucro non identificato a due metri di distanza. Saranno vestigia degli effetti della strategia della tensione. O sarà soltanto una mia piccola paranoia, toh: così se c’è al mondo qualcuno che mi crede paranoico sarà soddisfatto. Queste soddisfazioni bisogna ben concederle ogni tanto. Dirò di più: questa piccola inquietudine che ho patito oggi sembra il contrappasso di una piccola inquietudine che ho fatto patire anni fa ad altri. All’epoca in cui non mi davano del paranoico ma del distratto mi è anche capitato di essere redarguito da un capotreno perché avevo lasciato incustodito un borsone sospetto in uno scompartimento. Mi ero allontanato dal mio posto per cercare degli amici che pensavo fossero sullo stesso treno. Li avevo trovati. Mi ero fermato troppo a chiacchierare con loro. Il capotreno è venuto a cercarmi ed era anche un tantino alterato.
– “Chieda scusa ai suoi compagni di viaggio che pensano che nella sua borsa ci sia una bomba!”
– “Chiedo scusa, disinnesco subito”.
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