Se c’è una cosa che mi piace di Nanni Moretti è la sua capacità di farmi ridere dall’interno di qualunque storia. Certo non si ride sempre, dall’inizio alla fine di ogni film. E non si ride con la grassa risata, né con la risata nervosa da intellettualoide. È il suo modo di stare nelle storie che mi fa ridere, perché mi piace, perché lo trovo familiare. Anche nelle storie tristi. Se la vita fosse un testo, le presenze ripetute di un attore -amico come Moretti sarebbero come i segni di punteggiatura tra le parole. Anche i gatti mi fanno ridere così, e altri animali che attraversano le situazioni umane dando l’llusione di indossarne o interpretarne qualche aspetto. Sono punteggiature, coadiuvanti del senso senza pretendere un senso tutto per loro.
Anche se il soggetto e la regia non sono di Moretti, non c’è titolo più morettiano di Caos calmo. Come è eminentemente sua quella situazione che si costruisce nel film, quel pezzo di giardinetto davanti alla scuola della figlia che diventa il suo ufficio, il suo salotto, il suo punto di osservazione sul mondo che porta il mondo a guardare lui. E il punto, anche, da cui ricomincia a prendersi heideggerianamente cura-del-mondo: non solo di sua figlia ma di altri pezzi di mondo che si affacciano lì insieme a lui, e gli chiedono qualcosa senza neanche saperlo.
Una specie di barone rampante, meno bizzarro ma neanche tanto ordinario, meno geniale ma tutt’altro che sprovveduto. C’è qualcosa di straordinaramente attraente in questa elaborazione di un lutto che non è vissuto come dall’interno di una gabbia e con sentimenti di impotenza, ma come occasione. Per riappropriarsi di un pezzo di quotidiano e portare vita in un luogo che normalmente la vede solo passare e non contempla presenze che danno o chiedono senso. Per rifiutarsi di ripiegare sul passato: una persona cara non c’è più e chi dovrebbe essere più triste sembra essere il meno turbato. Ma non per insensibilità: perché si intuisce, fin dal primo momento del dramma, che non si devono sprecare il turbamento e il dolore: bisogna arrivare a piangere davvero la mancanza presente (ecco un ossimoro che getta luce sull’ossimoro del titolo), e non uno sterile ricordo. O anche perché occorre vedere il proprio lavoro, ad esempio, da una prospettiva diversa da quella delle beghe, delle ripicche, delle frustrazioni.
O infine, e principalmente, perché i figli fino a una certa età, come dice una psicologa in una scena, vivono le emozioni dei genitori. “Non quelle che i genitori danno mostra di vivere, ma quelle che vivono davvero”. E se si vuole tenere un figlio in equilibrio mentre cammina sull’orlo di un abisso, bisogna farlo aggrappare a un’emozione autentica. Non importa quale, basta che sia forte e vera. Se non è disponibile lì per lì, occorre andarla a cercare. Senza raccontarsi balle, e rischiando di persona.