"Osservavo un ragazzo operaio, a Carrara, durante un dibattito, che mi muoveva delle obiezioni radicali, familiari al movimento studentesco e ai piccoli gruppi a sinistra del PCI. Niente di nuovo: il tono predicatorio, il moralismo, il ricatto in nome della lotta come necessità dei giusti, l’accusa di tradimento, il linguaggio, tutto perfettamente prevedibile. Eppure… la sua voce, il suo corpo, il suo sesso – cose a cui non si pensa mai quando parla un borghese anche giovane – erano "dati" che restavano estranei al suo discorso e stavano sul suo discorso come presenze protettrici e propiziatrici… Egli usava la sua intelligenza e la sua cultura (forse di autodidatta per il quale gli argomenti nella nuova sinistra erano stati una rivelazione) ma gettava nella lotta anche il suo corpo: e questo corpo correggeva il suo discorso, vi aggiungeva significati e necessità reali; la dissociazione schizoide era solo alla superficie; all’interno la coesione era profonda: la sua voce era più vera della sua parola."
Ha ragione l’Impiegato, c’è una gara a fare domande oziose su cosa avrebbe detto e fatto Pasolini in questi trent’anni. Non parteciperò. Il brano che ho scelto, tratto da un’intervista del 1970, mi serve a porre una questione un po’ diversa, forse meno intuitiva ma più importante.
Spunti di riflessione per l’oggi, nell’opera di Pasolini, ne troviamo a vagoni. Pasolini è attuale e scomodo. Ma ciò di cui si sente davvero la mancanza non è tanto la lucidità dell’analisi, quanto quella capacità di cogliere e descrivere la schizofrenia che trovava in quel ragazzo di Carrara come in mille altre forme e vittime dell’omologazione. A cominciare da se stesso.
Pasolini era un artista e, per denunciare la violenza di cui voleva essere testimone, aveva scelto una strada da artista: le parole nei romanzi e negli scritti (corsari o no), le immagini nei film. Le scelte linguistiche e iconografiche servivano a documentare quella schizofrenia, causata da ciò che lui percepiva come soppressione violenta di una civiltà, di una tradizione, della cultura contadina e di tutto quello che portava con sé. La ricerca amorevole e ossessiva (nelle periferie, nel sottoproletariato, nei dialetti) delle sopravvivenze ancora vitali di una civiltà colpita a morte non erano motivate dalla speranza di un salvataggio in extremis ma dalla necessità, dall’urgenza etica di celebrare pubblicamente un funerale. Pasolini si pone davanti al potere come Antigone davanti a Creonte: la sua opera documentaria, in particolare, è come il pugno di terra di Antigone sulla salma del fratello. Rendere, non restituire la violenza attraverso il linguaggio: questa è la scelta che l’ha portato anche alle ben note polemiche con la protesta giovanile e studentesca. L’astrattezza di certe posizioni intellettuali, in quanto inconsapevoli di quella schizofrenia, non potevano essere veramente critiche e insidiose per il potere. Ciò che davvero spaventa Creonte non è la denuncia ma il gesto di Antigone, che non è violento, ma mette il potere di fronte ai segni evidenti della sua violenza e invoca per ciò stesso la necessità di un potere superiore, che renda giustizia.
"Chi ama veramente la vita non pensa mai al futuro. Sia chiaro però: se ci si è una volta illusi che nel mondo c’è qualcosa di giusto e qualcosa di ingiusto, e ci si è poi accorti che giustizia e ingiustizia non sono che un aspetto (uno dei tanti) delle cose, io penso che si debba continuare a vivere (e a lottare) come se quell’illusione fosse rimasta intatta".
La domanda quindi è: non che cosa avrebbe detto, ma come l’avrebbe detto, oggi. A quale schizofrenia potrebbe, potremmo applicare quello sguardo.