Cronachesorprese

4 Aprile 2005

Quella cosa in California

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Country Joe McDonaldPrima o poi ci voglio andare, in California. La California che mi piacerebbe vedere è quella del mio amico F. che si è stabilito a San Francisco ormai da qualche anno, ma anche quella che era il luogo d’elezione dei raduni hippies degli anni ’60 e ’70. Vorrei vedere, vorrei capire perché quella corrente di svecchiamento che ha percorso il mondo intero in quegli anni è partita proprio da lì.
Io non è che sia un grande ammiratore del ’68 come categoria dello spirito, capiamoci. Prendo atto che i "giovani" prima non esistevano, non avevano diritto di cittadinanza: si passava dall’essere bambini e figli e studenti all’essere adulti e genitori e insegnanti, senza niente in mezzo.
E non andava bene. Ma neanche è andata bene negli anni seguenti, quando si parlava troppo dell’essere giovani, si costruivano -ismi e categorie sopra a una fase della vita che è diventata presto un’astrazione, facendo perdere velocemente di vista il vero motivo per cui questa riflessione era opportunamente iniziata, e cioé la necessità di mettere in discussione forme troppo rigide di organizzazione sociale che impedivano a un giovane di pensarsi come una persona unica e irripetibile, e quindi di rischiare, di spendere la vita per qualcosa che fosse davvero desiderabile.
Quando ascolto la musica di quegli anni, ora che si può ascoltarla oltre i conflitti ideologici e generazionali, sento la genuinità e la potenza dei desideri che l’hanno generata. E ho qualche brivido, e sono contento che non siano brividi di nostalgia, anche perché in quegli anni non facevo altro che nascere e, piccolissimo, muovere goffi passi di danza, mi raccontano, al ritmo della travolgente A chi cantata da Fausto Leali.

Prima o poi andrò in California, ma se capita che ogni tanto una scheggia di California, e della California di quegli anni, capiti da queste parti, sono contento. E così è stato bello vedere il Peace&Love Show al teatro del Ponente di Voltri. Tra un reading e l’altro di Ezio Guaitamacchi (chitarrista onesto e direttore della rivista Jam), che con parole semplici ma appassionate e l’ausilio di qualche diapositiva ha raccontato l’esplosione creativa di quegli anni, e alcune esibizioni di pittura estemporanea e suggestioni psichedeliche, è comparso nientemeno che Country Joe McDonald, regalando quattro canzoni con voce e chitarra di quelle che ti arrivano fin dentro le ossa. In Italia pochi sanno o si ricordano di lui, ma in America è ancora un mito: è l’autore e l’interprete di Vietnam song, canzone che si ritrovò a cantare quasi per caso di fronte all’immensa platea di Woodstock nel 1969. All’epoca era un baffuto, occhialuto e bandanato figlio dei fiori, ora è un californiano attempato e dall’aria un po’ dimessa, e i fiori li ha ancora sulla camicia da turista per caso. Ma quando mette la chitarra a tracolla e comincia a cantare trova facilmente la stessa energia di trent’anni fa. Provate a sentirlo, e mi saprete dire: le sue canzoni sono molto di più di semplici inni pacifisti. Anche quelle polemiche, anche l’ultima coniata apposta per un certo son of the Bush che evidentemente non gli sta molto simpatico. C’è qualcosa di più della rabbia e del messaggio politico. C’è quel qualcosa che vorrei andare a scoprire, o a capire meglio, in California. Perché pensare di capirlo classificandolo come documento di un tempo che fu sarebbe, lo sento, presuntuoso.

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