Cronachesorprese

31 Maggio 2010

Fratelli nel blues

Filed under: le specie musicali,lo spettatore indigente — alessandro @

Il 16 giugno 1980 uscì negli Usa The Blues Brothers. Tre mesi dopo (il 19 settembre) il film di John Landis arrivò anche nelle sale italiane.

Nello stesso anno avevo cominciato a suonare. Un inizio in blues, seguendo gli accordi e le semplici note di un esercizio del maestro di chitarra di mio fratello. Avevo quattordici anni. Il ritmo del blues era il ritmo del cambiamento, della novità. Anche se non era di moda: ma io non sono mai stato alla moda. Il blues mi piaceva perché era un classico sempre nuovo; perchè sapeva essere dirompente senza orpelli. Mi piaceva ascoltare il blues rurale, le chitarre nelle incisioni d’epoca che si trovavano a buon mercato nei negozi di dischi: Leadbelly, Gary Davis (quello di Cocaine), Blind Lemon Jefferson, Big Bill Broonzy. Poi c’era l’italiano Roberto Ciotti che mi faceva impazzire con il suono metallico della sua Dobro, uno sferragliare che incrociava magnificamente con l’armonica e il piede battuto amplificato usato come strumento.

I Blues Brothers mi introdussero alle meraviglie del blues elettrico e del rhytm’n blues. Ma c’era qualcosa d’altro che mi conquistava in quel film. C’era questa idea che i musicisti blues, soul, insomma quelli che avevano quella “marcia” inconfondibile (e il film si diverte molto a esemplificare le differenze tra chi aveva il dono del blues e chi no) formassero una comunità trasversale, gente che si prendeva e si perdeva, si ritrovava e suonava. Non conoscevo Ray Charles, Aretha Franklin, Cab Calloway; James Brown lo conoscevo appena; ma dal film capii subito che erano grandi e la loro musica gloriosa, seppure confezionata in una storia e in scene quasi dimesse. Penso al magnifico, ironico understatement dei Blues Brothers e penso che anche Elvis quando faceva il ragazzo del popolo nei suoi filmetti non fu mai così convincente come Aretha nel suo fast food o Ray nel suo negozio di strumenti musicali. E John Lee Hooker per strada? Brividi. Con tutto il rispetto: i film di Elvis erano dei pretesti per far sentire un po’ di canzoni dell’idolo del rock nascente. The blues brothers è stato un capolavoro miracoloso che ha fuso attori e musicisti in un tutt’uno. È qualcosa che è accaduto e che non si potrà ripetere.

La mia bluesrevolution fu improvvisa e felicemente irreversibile. Non molto tempo prima i Bee Gees di Spirits having flown mi avevano abbastanza scosso e facevo fatica ad ammetterlo a me stesso e agli altri. Alle medie ero un “classicista” e melomane convinto che riproduceva con esiti neanche stupidi arie di opera con il flauto dolce, attirando i lazzi seminascosti dei compagni e lasciando didatticamente contenta ma tutto sommato perplessa quella povera donna della mia insegnante di musica. Per un ragazzo tra i 12 e i 14 era dura spiegare agli amici che mi piacevano allo stesso modo Verdi, Puccini, i Bee Gees e Roberto Ciotti. Non ci provai che qualche volta, mi limitai per lo più a pensarlo. Oggi non saprei dire perché mi sono imposto questa autoeducazione musicale, ma qualche risultato penso di averlo ottenuto. Ho sempre ascoltato la musica per la musica e non per un’esigenza di “rappresentanza” o di identificazione in una tribù.

Fu facile, cionondimeno, identificarmi nei Fratelli Blues. Due corvacci del tutto fuori moda come me. Che andavano alla funzione domenicale e vedevano la luce ma imprecavano contro la suora pinguina. Imprecavano ma poi si dannavano per salvare la loro vecchia scuola orfanotrofio, l’unico luogo concreto a cui potevano appartenere, anche da ladruncoli senza arte né parte. Che uscivano di prigione ma erano in missione per conto di Dio. E per quella missione senza nessuna velleità rivoluzionaria andavano controcorrente. Mi fece riflettere su questo qualche anno dopo un amico, RG, con una recensione improvvisata che non dimenticherò mai (“I Blues Brothers? È un film religioso!”). Oggi ne sono convinto ancora di più: l’essenza della religiosità sono i BB che vanno contro il fascino dell’aggregazione che offre stereotipi in cambio della scomoda individualità; contro le nicchie limitate ma potenti dei nazisti dell’Illinois e dei terribili seguaci del “Country & Western” style. Che corrono verso il destino, nonostante la polizia. Una polizia strana, non malvagia. O meglio malvagia quanto può essere malvagio un globulo bianco che si getta all’inseguimento del batterio in libera circolazione nei vasi sanguigni. Per tutto il film la polizia è solo una funzione automatica. È una rappresentazione perfetta, geniale dell’ottusità tecnocratica, dell’eclissi del libero arbitrio. Quelle auto che inseguono e che alla fine si ammonticchiano una sull’altra senza senso. Elicotteri. Polizia a cavallo. Squadre speciali. Per inseguire… una vecchia auto della polizia. Perché Elwood, il giorno in cui suo fratello Jake esce di galera, lo va a prendere con un’auto della polizia. Perché la vecchia Cady (“dov’è la caaady…“) l’ha data via per un microfono. Non saprei dire se è più anticapitalista o antimarxista: questo annichilimento del valore di scambio della merce mi sembra letale per qualsiasi teoria economica. I Blues Brothers erano una vera calamità per l’America che si stava arrendendo all’arrivo dei conformisti anni ottanta.

Il mio compagno di banco era il figlio del proprietario di un cinema. Quando Blues Brothers uscì cominciò a magnificarmelo, a raccontarmene ampi stralci. Mi raccontava spesso dei film nuovi che vedeva, ma capii subito che Blues Brothers era diverso. Era un film per noi. Lui rideva e rideva a raccontarmi le stesse scene. Mi disse che l’aveva visto quattro, cinque, sei volte, continuando a ridere e a raccontare. Prima del film fu la sua risata a convincermi. Ero già un fratello blues prima di vedere che razza di fenomeni erano Jake & Elwood. A molti in Italia non piacquero subito quell’ironia e quella comicità. A noi sì, la adottammo subito e ci accompagnò per tutta l’adolescenza. Ci alleggeriva un po’ e faceva capire che la vita, con tutte le sue difficoltà, è soltanto una strada che ci separa dalla prossima occasione per suonare insieme. Qualsiasi cosa vogliate mettere al posto della parola “suonare”. E che sia in un Palasport o in un carcere, in fondo, non fa poi tanta differenza.

13 Aprile 2010

Ehi Ringo, don’t make it bad

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“Non era stato il Vaticano a dire che eravamo satanici?”
No, Ringo, non era stato il Vaticano. È una cavolata da bigotti che gira da decenni in ambienti ultraconservatori e non riguarda soltanto e in particolar modo le vostre canzoni. Andava di moda soprattutto negli anni ottanta. Alcuni purtroppo ancora la sostengono e hanno qualche entratura e credito anche come giornalisti in testate cattoliche. Ma questo non basta a dire che “Il Vaticano” vi ha dato dei “satanici”.
“E adesso ci perdonano?”
No, perché nessuno vi ha mai condannato :-) È successo soltanto che l’Osservatore Romano, come tutti i giornali, ha pubblicato alcuni articoli in occasione del quarantesimo anniversario dello scioglimento dei Beatles. I giornalisti che ti hanno dato l’imbeccata sul “perdono” del Vaticano ti hanno provocato per ottenere la battuta ad effetto. Forse non lo ricordi o semplicemente nessuno te l’ha mai fatto notare, ma anche all’epoca della battuta di John Lennon che tanto fece discutere (“Siamo più popolari di Gesù Cristo”) l’Osservatore Romano non rispose con attacchi e condanne alla vostra musica e al vostro valore artistico. Fece una critica misurata, forse non molto simpatica (e neanche scritta molto bene) ma in spirito dialettico. Nessuna “condanna”, nessun “anatema”, solo una libera critica. Il quotidiano dava anche notizia, peraltro, delle spiegazioni dello stesso Lennon, del tutto concilianti.
“Credo che la Santa Sede abbia altre cose di cui parlare”
Indubbiamente ha molte cose di cui parlare e non se ne sta zitta, come molti vorrebbero. Ma l’Osservatore Romano non è la Santa Sede, è un giornale e fa il suo lavoro. Si occupa un po’ di tutto, anche di musica. Io fossi in te chiamerei il giornalista della Cnn e gli chiederei se ha capito la differenza tra un articolo di giornale e “quello che dice il Vaticano”. O è ignorante lui, o ti ha preso in giro per farti reagire. Sai, sono giochini che hanno molto successo ultimamente.

Ma non preoccuparti, tutti i cattolici che conoscono davvero la vostra musica vi amano alla follia. O al limite hanno altri gusti, ma non vi disprezzano. Come potrebbero? Voi avete scritto cose così:

24 Agosto 2009

Reboot yourself

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Dagli U2 ho finito, dagli U2 riprendo. Li ho visti a ferragosto a Wembley.

Un solo precedente per me. L’emozione del concerto del 1993, il 3 luglio al Bentegodi di Verona, me la ricordo bene. Era diversa, era di altro genere. Impossibile che sia altrimenti: tutto passa e tutto cambia. Però l’esperienza in qualche modo si consolida. Posso dire che gli U2 sono parte della mia vita, posso dire che non riesco a pensare alla mia vita senza un bel po’ della loro musica. Non è certo il gruppo dal quale ho ascoltato la migliore musica, ma è il gruppo che ho sentito per molto tempo eccezionalmente vicino all’espressione di me, delle mie attese, dei miei desideri.

Il concerto di Wembley me lo sono goduto. Ma l’emozione è stata diversa rispetto a sedici anni fa. Non ho seguito molto le ultime produzioni: come è logico e come avviene per tutti i gruppi di successo, anche gli U2 cucinano nuovi brani tendendo a ripetere le ricette che hanno funzionato in passato. Da tempo non ho l’impressione di ascoltare da loro qualcosa di radicalmente nuovo. È fisiologico, e non mi dà fastidio. Li ascolto sempre con piacere, ma con poca attenzione.

È invece indubbio che l’armamentario spettacolare globale dei concerti del quartetto irlandese riesce sempre a superare le attese. Il palco a 360 gradi, hanno scritto sul Times, è qualcosa che starebbe a buon diritto anche nella sala delle turbine della Tate Modern: è arte contemporanea, né più né meno. È una struttura gigantesca e leggera, che elimina o dissimula elegantemente tutti gli aspetti antiestetici di un palco di un grande concerto. È un frullatore in grado di trasformare in qualsiasi momento il live in videoclip e il videoclip in live, il palco in schermo e lo schermo in palco. È un monumento all’elasticità del rock-pop-turningindisco-againrock che sta facendo vincere a Bono e soci la sfida del salto generazionale: guardando il pubblico presente a Wembley non c’è alcun dubbio che piacciano, e molto, ai ventenni. Cioé ai figli di quelli che sono stati testimoni della loro prorompente novità nella corsa dai club di Dublino al Rockpalast festival dell’ 83 e poi oltre, passando per il Live Aid, fino alla conquista dell’America nello storico tour documentato in Rattle and hum.

Sono abbastanza indifferente, da sempre, alle diatribe innescate da quelli che si tormentano a ogni cambio di marcia o di direzione del gruppo. Ora non c’è quasi più nessuno che non riconosce che gli album della svolta degli anni novanta, Achtung baby e Zooropa, sono grandissimi album. Quando Edge rispondeva alle critiche dicendo che sentiva di non aver ancora dato il meglio forse si sbagliava, ma non dubito che fosse sincero. Come è sincera la passione che porta lui e gli altri a organizzare tour sempre più dispendiosi e “magnificenti”, tanto per usare (re-italianizzandola) una parola che a Bono piace molto in questo periodo. Non è per nascondere o far dimenticare qualche scivolone in più nelle performance vocali o chitarristiche. Io penso che gli U2 siano, loro sì, dei grandi comunicatori. Che sono partiti dalla musica (senza mai abbandonarla, anzi) e hanno scalato con anelito quasi da futuristi la multimedialità, la rivoluzione digitale. La seguono e la commentano a modo loro. Anticipano poeticamente forme, potenzialitá e problemi del modello di network che si impone come paradigma di conoscenza e di socialità. Provate a riascoltare Achtung baby in questa chiave, lo troverete sorprendente. Pensate agli occhiali da mosca di Bono come a una metafora (non voluta, semplicemente intuita) dell’homo televisivus che sbatte sulle pareti del nuovo mondo, senza riuscire a entrarvi. Pensate al sogno cosmopolita di Zooropa, alla Vorsprung Durch Technik, al salto che infrange le barriere dello Zoo, i limiti della Station, le pareti della monodirezionalità insomma.
La televisione non fa reboot. Si accende, e poi si spegne.

Non avete avuto sempre l’impressione di un’ambivalenza feconda e non cinica nel modo degli U2 di guardare, usare e raccontare la “tecnica”, che poi è in buona approssimazione la tecnica della comunicazione di massa? Io sì, l’ho sempre avvertita. E ho sempre pensato che fosse sbagliato dissolvere quella ambivalenza in un senso o in un altro, nel senso di una critica orwelliana ai mezzi di comunicazione o nel senso di una delirante esaltazione del “you can go anywhere”. Pensavo che occorreva accoglierla per quello che era, un discorso fatto di musica e poesia, parimenti indifferente alle forme della “denuncia” e dell’entusiasmo tecnofilo.

Dopo Wembley Station, August 15, 2009 ho deciso: non mi sbagliavo.

11 Gennaio 2009

Serata De André, le pagelle

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Siamo al decennale e mi sono rotto da dieci anni di celebrazioni in onore di Fabrizio De André. Amo le sue canzoni come le amano quasi tutti, sono state importanti per me come lo sono state per tutti. Ma la “deandreide” cominciata un attimo dopo la sua morte non l’ho mai sopportata. A Genova, in particolare, è un fenomeno assai pernicioso che alla normale pesantezza della retorica celebrativa accompagna quella sulla genovesità.
Una volta Estrellita ha detto una cosa che ho trovato molto convincente: De André è conosciuto da tutti, ma ognuno pretende di avere un rapporto esclusivo con lui e di poterlo / doverlo raccontare agli altri. Questo era un fenomeno ben osservabile negli anni dell’esplosione del grande successo del cantautore, ma non è mai veramente finito e ha preso poi la facile strada dell'”io che l’ho sentito dal vivo, io che l’ho sentito parlare una volta”, eccetera eccetera.

Lo speciale di Che tempo che fa ha avuto il merito di mettere in primo piano le canzoni. Ho appuntato, man mano che ascoltavo, voti e impressioni del tutto soggettive su quasi tutti quelli che hanno partecipato.

Vinicio Capossela 9
Stupenda Città vecchia, con la voce giusta, lo sguardo giusto che è il suo, e un insert impertinente che fa rimanere quel presentatorino ammodo di Fazio a bocca aperta, anche se poi fa finta di niente… Amo Vinicio :-)
Luciana Littizzetto 8
Mi ha stupito come voce recitante nelle Nuvole. È stata bravissima, e mi ha fatto molto piacere vederla anche un filino commossa, o almeno emozionata.
Samuele Bersani 7,5
Ottima scelta per Il bombarolo. La canta con sicurezza e ha il merito di sottolineare alcuni passaggi, facendo apprezzare uno dei testi più “acuminati” di De André.
Lucio Dalla 7
Ottima l’interpretazione di Don Raffaé, una canzone molto adatta a lui e alla sua teatralità.
Antonella Ruggiero 7
Niente male. Riesce a dare il suo inconfondibile tocco “semilirico” all’Ave Maria della Buona novella senza appesantirla, anzi, dando leggerezza a una canzone il cui arrangiamento originale non mi ha mai convinto: per questo brava anche l’orchestra.
Gianna Nannini 7
È perfetta per Via del Campo (la canzone…), nessuno ci ha mai pensato prima?
Tiziano Ferro 6,5
Coraggioso a scegliere Le passanti, una canzone solo apparentemente lontana dal suo stile ma sicuramente lontana dai temi per cui i suoi fan lo apprezzano. E lontana anche dal gusto di oggi, è una canzone da “vecchi cantautori”. Il risultato è buono e interessante.
Massimo Bubola ed Edoardo Bennato 6,5
Quando quei due fanno un blues come Quello che non ho difficilmente deludono, ma Bubola era troppo emozionato. Per quanto riguarda Bennato si potrebbe pensare che sia una delle canzoni di De André più adatte a lui, ma io ero rimasto folgorato dalla sua bellissima interpretazione di Canzone per l’estate fatta al Carlo Felice qualche anno fa, in un’altra serata celebrativa simile a questa. Sarebbe stato bello sentirla anche questa sera.
Eugenio Finardi 6,5
Mi è sembrato emozionato, si potrebbe spiegare così l’eccesso di espressione nel cantare Verranno a chiederti del nostro amore, una cover che è nel suo repertorio e che normalmente interpreta in maniera più sobria.
Jovanotti 6
Un’operazione puramente affettiva e simbolica la sua schitarrata in collegamento da Spoon River con il suonatore Jones. La sufficienza per il coraggio e la simpatia, velo pietoso su come ha cantato e ha suonato… ma in fondo è il bello di Lorenzo Cherubini.
Andrea Bocelli 5,5
Apprezzabile il tentativo di dare informalità alla sua partecipazione imbracciando la chitarra. Ma è solo un espediente di comunicazione. Non mi convince il modo in cui canta La ballata dell’amore perduto, risulta piatta.
Roberto Vecchioni 5
Una media: sette per gli accenni delle canzoni sul tema della guerra ai ragazzi e con i ragazzi. Tre per la più grande cazzata della serata: “l’uomo ha bisogno di essere capito, non perdonato”.
Piero Pelù 5
Non mi è piaciuto il suo Pescatore. Non mi sembra che abbia fatto scelte interessanti né come interpretazione vocale, né come arrangiamento. Io l’avrei visto meglio a cantare qualche brano del repertorio più “maledetto”, tipo La ballata dell’amore cieco.

Si possono ritenere fuori concorso per ovvi motivi la Pfm con Boccadirosa, Nicola Piovani con la sua “suite” su alcuni temi di Storia di un impiegato, Ivano Fossati con Smisurata preghiera e Cristiano De Andrè con Creuza de Ma.

29 Dicembre 2008

Allevi e maestri

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Uto Ughi dice che in altri tempi Allevi non sarebbe stato neanche ammesso a un conservatorio. Giovanni Allevi ribatte dicendo che ha passato una vita a studiare e ha superato gli esami di composizione con il massimo dei voti. Difesa spuntata, visto che il violinista parla di conservatori di altri tempi. Ma allora il problema sta nei conservatori, e la sparata malevola si ritorce contro i maestri. Nessuno mi toglie dalla testa che una parte non piccola del problema sta in quelli come Uto Ughi. Sta forse nel fatto che la scuola in cui si impara la musica si chiama ancora conservatorio. Non trovate, per dire, che il termine seminario sia molto più progressista? :-)

La musica del ricciolo a me proprio non piace. La trovo giusto un tantino meno irritante di quelle lagne di Ludovico Einaudi. Però il mio è un giudizio, come sempre, da indigente e non da esperto.
Quindi, incuriosito dalle stroncature feroci ricevute dalla direzione d’orchestra del giovane compositore al senato, ho chiesto a un amico violoncellista di darmi un giudizio tecnico.

Qualcuno ha definito i suoi gesti “ridicoli”. Sei d’accordo?

“Si. Ho visto i due primi brani e mi sono bastati.”

Quali sono tecnicamente i difetti più evidenti?

“Uno che batte il quattro con la testa prima di dare l’attacco con la bacchetta fa veramente ridere! E poi di solito un direttore deve anticipare il gesto, ma Allevi sembra battere il tempo dell’orchestra, nel senso che segue l’orchestra. È un po come quando guidi l’auto: con gli occhi devi sempre anticipare il movimento del volante, devi sempre “dire” all’auto dove hai intenzione di mettere le ruote. Se invece dici ohh, c’era una curva… vuol dire che sei già andato fuori”.

In questo caso c’è una supplenza dell’orchestra alle carenze del direttore?

“In questo caso i musicisti, da bravi professionisti, vanno assieme senza guardare il direttore. Che ci sia questa supplenza è evidente anche da come gli archi grattano per scandire il ritmo”.

E questo quanto incide sullo stile dell’esecuzione?

“Incide sulla sonorità… che è come dire la tua voce, come la dizione per l’attore. E nella preparazione di questi brani la sonorità mi sembra davvero poco curata. Non so cosa ne pensi Allevi, ma a me quelle grattate così aggressive fanno schifo. Pensa se vai a vedere un film e l’attore principale ha una voce gracchiante e sempre uguale. In alcuni punti può essere caratteristico, ma scommetto che dopo pochi minuti il tuo interesse scemerebbe, anche se i dialoghi fossero da Oscar”.

Cosa pensi della musica di Allevi? Io non sono un esperto di musica classica, e non ho neanche un’esperienza di ascolto sufficiente per dire che è un pianista mediocre, come dicono molti. Capisco però chi sostiene che la sua musica non ha niente di originale ed è poco interessante.

“Io non lo conosco molto, ma francamente non trovo nulla di geniale nelle composizioni che ha presentato nel concerto al Senato. Musica così può farla un qualsiasi compositore professionista tutti i giorni, quanta ne vuole. Qualcuno dirà: almeno è piacevole… Sì, perché c’è un déja vu o se vuoi un déja entendu che, pur non copiando, emula stili e armonizzazioni già in uso da almeno un secolo. La cultura musicale italiana è altro! E per guardare ad altre opere contemporanee molto meglio Porgy and Bess, o Candide e altre composizioni di Bernstein a cui Allevi sembra volersi ispirare. Ma anche Adams è senz’altro meglio. L’errore di Allevi è quello di volersi presentare come compositore di musica classica. Se invece pensasse a far soldi come compositore di musica leggera nessuno avrebbe niente da dire”.

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Interessante l’insieme degli interventi sui blog, almeno quelli che ho visto finora segnalati da Blogbabel. Post award per l’argomento a Educazione Cinica.

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