Cronachesorprese

28 Luglio 2016

Noi che non diciamo mai Patato

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Amici che amate gli animali e in particolare i vostri, parliamoci chiaro. Non c’è nulla di strano nel rivolgere loro parole d’affetto, e ci mancherebbe. Un “patato” ci può stare, e che sarà mai. Sì, la parola è un po’ insulsa, questa espressione di pucciosità creativa coniata da qualcuno chissà dove e quando che ora tutti si sentono in dovere di ripetere e non si capisce perché, considerato che alla prima ripetizione di creativo non ha più nulla. Ma me ne sto.
Anche “patatone” cos’è in fondo se non una variazione sul tema? Non farò mai facce strane a sentire un “patatone”, ve lo prometto.
Coniato il sostantivo, naturalmente, prima o poi verrà fuori anche l’aggettivo. Ed eccolo qui, il “patatoso“. Come si fa a stigmatizzarlo, bisogna essere coerenti: se si tollera il patato dobbiamo tollerare anche il patatoso.

Vedete dunque che sono più che accomodante, non sono uno di quelli che si stropicciano la faccia in espressioni di disgusto appena sentono una parola irritante, posto che comunque la parola (con tutte le sue variazioni) è oggettivamente irritante.
Quindi eccoci qui, restiamo amici. Però in considerazione della grande apertura mentale da me dimostrata, posso chiedervi un favore? Usate patato, usate patatone, usate patatoso, ma non metteteli mai insieme: non avete bisogno di rafforzare un concetto che è già come un tuffo in un barile di melassa. Quindi vi chiedo di pensare almeno un attimo prima di immortalare i vostri impeti irrefrenabili di dolcezza in un “patato patatoso“, o in un “patatone patatoso“. Converrete con me che questo comincia a essere troppo per chiunque, anche per chi vi vuole bene, è animato dalle migliori intenzioni ed è abitato solo da candidi pensieri di armonia universale e pace nel mondo.

Ma non potete.
Non.
Potete.
Mai.
Assolutamente.
Sbrodolare in un “Super Patatone Patatoso“.

Appena letto.
Giuro.

Che devo fare?

29 Novembre 2015

Fondamentalismo e fondamentali

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Non esiste il paragone tra i pazzi che hanno fatto l’incursione nella clinica americana di Planned parenthood e i pazzi degli attentati di Parigi. Non esiste innanzitutto un background sociale e politico paragonabile. Da una parte c’è una polveriera pronta a esplodere, dall’altra i botti di capodanno di qualche fissato che di quando in quando fanno vittime.

L’unica analogia tra loro è la pazzia. Non un “fondamentalismo” la cui definizione è sempre più ambigua. A essere precisi le parole “fondamentalista” e “integralista” non mi sono mai piaciute (anche se le ho usate a volte per comodità: cercherò di evitarle d’ora in poi perché il gioco si fa duro). Cosa vorrebbe dire, che i terroristi che prendono un discorso parareligioso a pretesto sarebbero più vicini ai “fondamentali” di una fede? Non lo pensavo neanche del terrorismo politico, che questa presunta coerenza con l’ideale politico la teorizzava, argomentava e rivendicava a ogni passo, si può immaginare cosa penso di questo. Forse fa comodo pensarlo a chi vorrebbe bandire ogni fede dalla società: in realtà questi criminali sono i più lontani dai “fondamentali”. O meglio, sono proprio estranei: se fossero solo lontani sarebbero comunque in relazione. Ma non è così.

Quelle che nel linguaggio comune chiamiamo “estreme conseguenze” in genere non sono conseguenze logiche. A meno che non si voglia sostenere che un delirio è la conseguenza normale di un desiderio. “L’errore è una verità diventata pazza”, diceva Chesterton. Ma la pazzia è il venir meno di qualche fondamentale, non un suo rafforzamento. È perdere una relazione, non darle maggior valore.

2 Gennaio 2014

Certezze 2013. Speranze 2014.

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La strutturale ciclotimia italiana ha prodotto tra il 31 dicembre e il 1 gennaio la solita altalena tra invettive ed entusiasmi, come se un anno appena concluso potesse davvero essere gettato via caricandolo della colpa per le cose andate male e un anno appena cominciato potesse davvero reggere il peso di attese di cambiamento per lo più sproporzionate.

L’anno più difficile della mia vita fino ad oggi è stato il 2003. Davvero difficile. Ma quando ha preso congedo non l’ho insultato.
Ogni 31 dicembre invece mi trovo circondato da maledicenti di ogni sorta. E non riesco mai a capire da dove viene questo bisogno di maledire, di dissociarsi da una frazione del tempo come se fosse stata soltanto subìta.

Il 2013 per me è stato un anno di passaggio. Un anno che mi ha chiesto prevalentemente di “stare”, di ascoltare e di servire. Le prime due cose mi riescono abbastanza bene da sempre. La terza ho dovuto impararla quasi da zero.

Le domande e i desideri che mi lascia l’anno appena passato sono tanti. Troppi per spiegarli e scriverli qui. Posso però fare un elenco delle certezze, delle acquisizioni dalle quali posso ripartire: certezze che dettano anche le direzioni e le speranze per l’anno che è appena cominciato.

Ho una bella famiglia. Non da mulino bianco, tutt’altro. Ma una famiglia che con il tempo ha imparato a dare il meglio nelle difficoltà. Ed è pronta a imparare qualcosa di nuovo. Anche da nuove difficoltà ma se fosse anche da qualcosa di bello non farebbe schifo, ecco.

Sono un pellegrino. Dopo tanto vagare da un’esperienza ecclesiale all’altra, un vagare condito di qualche senso di colpa perché avevo il sospetto di non saper andare a fondo di nulla, ho capito che la forma del mio essere cristiano è quella del pellegrino. E l’ho capito non per aver pensato, ma per aver camminato e per aver permesso che il cammino invadesse la mia vita. Mi sono sempre fermato dove ho trovato nutrimento, ma non ho mai potuto resistere all’impulso di ripartire. Non devo farmene un cruccio: è giusto così, per me. È soprattutto l’unico modo in cui anch’io posso dare qualcosa, ed è questa la grande scoperta, la grande sorpresa. Non sono mai stato davvero fuori posto e non mi sentirò mai più così. Esserne finalmente consapevole cambia di segno e aumenta di intensità la mia appartenenza alla Chiesa.

Sono un giornalista. Questa è la mia vocazione professionale, non ho dubbi. Aspetto ancora che un’autorità lo riconosca pienamente e formalmente, ma intanto ho fatto dei passi avanti e in ogni caso non “pendo” più da questo riconoscimento. Mi servirebbe energeticamente per chiudere un cerchio che ho cominciato a disegnare ormai vent’anni fa. È importante e farò il possibile perché avvenga, ma non è più fondamentale.

La dialettica non è un fine. Amo discutere, soprattutto di questioni legate in qualche modo ai massimi sistemi. E mi piace “sentire” quando ho ragione e non fermarmi di fronte a niente e a nessuno, perché la verità ha le sue esigenze. Ma quest’anno ho provato un gusto diverso: usare la dialettica non per sbaragliare, non per far cadere muri, ma per andare a piantare semi in campi ostili. Apparentemente ostili. E poi affidarli, perché l’acqua, il sole, il nutrimento non posso essere io a provvederli, laggiù.

Buon anno a tutti.

19 Novembre 2013

L’eredità del congiuntivo

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Due minuti surreali nella puntata di sabato scorso de “L’eredità”, il giochino in preserata su Raiuno. Uno di quei programmi che ormai fanno venire la nausea a qualsiasi under 80 che possa ancora chiamarsi sano e psicofisicamente stabile.

Una bella concorrente, già miss Sardegna e finalista a Miss Italia qualche anno fa, si cimenta in una prova sui congiuntivi. Sarebbero venti in tutto quelli da indovinare, il presentatore riesce a proporne solo sei a causa dei ripetuti errori. Va bene, è andata nel pallone. Ma non si spiega solo così. L’impressione è che non abbia la minima idea di come si forma un congiuntivo. Anzi sembra che tenti di formare un passato remoto.

eredità

(Se non funziona il puntamento al minutaggio preciso: da 11:13 per due minuti circa).

Non voglio infierire. La ragazza non sembra neanche antipatica o presuntuosa. Voglio solo dire che sono preoccupato per il caro congiuntivo. Io gli voglio bene. Come a un amico. Un amico che ne sa, non un secchione. Si dà probabilmente il caso che molti insegnanti sbaglino a presentarlo come un alfiere della bella lingua e del parlare forbito. Non si meriterebbe di passare per un rampollo sfigato di una nobile famiglia decaduta: sono convinto che sia ben altro.

Tra i dieci e i quindici anni è uno stimolo concreto al ragionamento autonomo, è un invito a scoprire la complessità del pensiero e il rischio della soggettività, la responsabilità dell’io, dell’interpretazione. Un po’ devi picchiarti con lui anche quando hai le migliori intenzioni, anche quando non pensi (mentre sudi sul libro di grammatica) di eliminarlo quanto prima dalle tue conversazioni e dalla tua vita. Però è una lotta da cui si esce un po’ più uomini, un po’ più consapevoli.

Il congiuntivo non è un obbligo, è un’opportunità. Posso dire molto (non tutto) facendo a meno di lui; ma che io dica qualcosa scegliendo di prenderlo a braccetto, di portarlo correttamente con fierezza nella mia conversazione aiuta a essere uomini migliori. Il congiuntivo non è sufficiente a essere buoni e valorosi; ma se sei buono e valoroso non penso che tu possa snobbarlo.

Dai, mia cara miss bella e simpatica, non offenderti. Hai tutto il tempo e le carte per adornare la tua bellezza con la classe, l’eleganza, la signorilità, ma soprattutto con l’intelligenza, la fedeltà e il valore di un buon congiuntivo. E diciamolo, anche lui ti merita, non è il primo che passa e ti fischia qualche volgarità per strada. Cercherà di conquistarti dando il meglio di sé e porterà in dote un’eredità che è ben più importante di un gioco televisivo. Ti sarà compagno devoto e fedele, non svicolerà con qualche condizionale. Che possiate vivere insieme felici per sempre.

13 Giugno 2011

Viva il quorum!

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Che bella cosa la democrazia, che bella cosa il quorum. Finalmente: cento di questi referendum. Ora nessuno dica più che il quorum va abolito, che è troppo alto, che è uno dei tanti ostacoli che impediscono al popolo di esprimersi. Quanto accaduto in questi due giorni e per questa campagna referendaria dimostra il contrario. La necessità di raggiungere il quorum forgia un referendum al fuoco della controversia e lo prepara degnamente allo scontro finale con la legge che vuole abolire. Costringe alla mobilitazione, accende le discussioni, gli approfondimenti, spariglia gli schieramenti politici predefiniti. Il quorum scatena la democrazia. Qualcuno vorrebbe farci credere che esista da qualche parte una democrazia di tecnici che risolvono tutto calcolando, ma è un imbroglio. Una grande democrazia ha bisogno di grandi sfide, e il quorum è una sfida alla passione politica e democratica degli elettori.

Lo slogan del Battiquorum ha avuto successo, è arrivato un po’ a tutti. Ma il quorum non è solo da battere, è anche da mantenere. Immaginatevi che mortorio sarebbe stata questa campagna referendaria senza il quorum. Quindi: viva il quorum, e con l’aiuto di wikiquote e qualche altra risorsa da spulciare qua e là andiamo con altre proposte di slogan scontati ma doverosi per ringraziare questo farmaco rivitalizzante per il senso civico. Facciamo la rima amorum e quorum, tutti al genitivo plurale appassionatamente. E mandiamo affanquorum chi vorrebbe levarcelo: un grande quorum non potrà mai essere sostituito da nessun freddo bilancio, da nessuna partita doppia dei sì e dei no.

Le ragioni del quorum
Va’ dove ti porta il quorum
Al quorum non si comanda
Anema e quorum
Un quorum di panna per noi, nei momenti teneri
I quorum sono fatti per essere infranti (da Oscar Wilde)
Non si vede bene che con il quorum (da Antoine de Saint-Exupery)
Non si vince bene se dal quorum non viene
Quorum sincero amico vero
Quorum contento il ciel l’aiuta
Getta il quorum oltre l’ostacolo
Il quorum è uno zingaro
Un quorum matto che ti vuole bene
C’è un principio di allegria fra gli ostacoli del quorum
Tu, dimmi, un quorum ce l’hai?
Volami nel quorum
Un quorum con le ali
Quorum ribelli
Quorum selvaggio

A quorum scalzo ad aspettare, e i piedi sopra il quorum. Per volare sperare soffrire, impazzire per amore.

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