Cronachesorprese

7 Gennaio 2014

Partenza da via del Molo

Filed under: cronache — alessandro @

via del molo genova

Più di cent’anni fa. Mio nonno bambino e al centro della foto. Altri “caratteri” di famiglia attorno a lui. Ogni volta che passo da lì, da via del Molo, guardo in su e provo a immaginarmi la scena. Non è possibile afferrarla e ricostruirla tutta, e chissà quanti errori e approssimazioni ho in testa. Ma chissà anche quante delle mie sensazioni sono giuste, più giuste della cronaca che potrei fare se ci fossi stato.
Questa foto oggi naturalmente è dedicata a te, zio Tom. Ciao.

Morti non manifesti

Filed under: cronache — alessandro @

Ho scoperto oggi che nel centro di Genova non si possono pubblicare manifesti mortuari. Un’ordinanza (che devo ancora trovare: con una semplice ricerca sul sito istituzionale non viene fuori) lo impedisce. La zona interdetta è abbastanza ampia, da Dinegro a Sturla e da Marassi al mare, come dire (per i non genovesi) un’ellisse con diametro maggiore di circa dieci chilometri.

Facendo mente locale ho realizzato che in effetti in tanti anni non ho mai visto affissioni mortuarie in centro. Non saprei almeno indicare con sicurezza un punto in cui trovarle, mentre per Sampierdarena non avrei alcuna difficoltà a farlo.
Approfondirò. Se la motivazione è quella del decoro urbano è semplicemente ridicola. Per ora sono riuscito soltanto a sapere che su richiesta può essere messo un annuncio nel portone di residenza del defunto o in locali (bar, associazioni) che frequentava abitualmente. Ma per quello non ci sarebbe neanche bisogno di un servizio comunale.

Non so come sia possibile che un’ordinanza operi una discriminazione così clamorosa. E mi chiedo se anche in altre città è così, ma non mi stupirei se Genova fosse un caso unico al mondo. Bisogna entrare in primo luogo nella mentalità tutta genovese della non ostentazione (del piacere come del dolore, della fortuna come delle avversità) per cominciare a capire.

4 Gennaio 2014

L’albero del pane

Filed under: esperimenti e soluzioni — alessandro @

lievito madre
Non ho più raccontato nulla qui sulla mia pasta madre, ma questo non significa che abbia lasciato perdere. Temo anzi di averne parlato fin troppo, temo di aver ammorbato parenti e amici. Vabbé, passo dei periodi di entusiasmo. Ma con il tempo ho imparato a contenermi. In ogni caso da aprile 2012, da quando è nata la mia pasta madre, in casa mia il pane fatto in casa non è mai mancato. Lo faccio almeno una volta alla settimana, a volte di più. Ho risolto i problemi dei primi tentativi, come la crosta troppo spessa, anche perché il lievito ha migliorato molto le sue performance. Quando manco da casa per periodi più lunghi se ne sta buono in frigo, senza deteriorarsi. Magari il primo pane dopo la sosta forzata ha una punta di acido in più, ma quello successivo è già perfetto. Il mio lievito è forte, vitale. Si sente curato e ripaga con buona moneta.

pagnotta

Non si tratta per me di “cucinare”. Mi dedico volentieri alla cucina quando posso, faccio un lavoro di testa e prepararmi almeno la cena mi garantisce quella quota di manualità quotidiana che serve per meditare e per tenere il contatto con le cose (altra buona abitudine che mi aiuta in questo è la chitarra, ma ha un valore diverso). Se cucino per altri generalmente i miei ospiti apprezzano. Cucino istintivamente, senza sapere molto dei procedimenti “giusti”, qualche volta sbaglio ma il più delle volte ciò che esce ha un suo perché.

pane

Il pane però non lo lascio al caso. Seguo il procedimento base che ho imparato su pastamadre.net. So che ci sono altri metodi ma quello mi dà soddisfazione e non vedo motivi per cambiarlo. Il “tuning”, le variazioni dipendono dalla stagione, dalle condizioni di temperatura e umidità che suggeriscono di allungare o accorciare i tempi di lievitazione, di aggiungere un po’ di zuccheri (malto di riso di solito), di inumidire la superficie dell’impasto o coprirlo meglio. Per l’inverno gli ho regalato un vecchio maglione che non uso più.
Faccio pane e pizza. Il pane dura tanto, una settimana e anche più, e non ne butto via mai niente, neanche una briciola. La pizza… è buonissima, e non si “piazza” sullo stomaco come a volte quella delle pizzerie al taglio.

pizza

Ho imparato a riciclare bene il pane raffermo nelle zuppe come la Sopa de ajo spagnola, che ho gustato per la prima volta sul Cammino. Ma poi con la stessa tecnica di base ne faccio altre variando le verdure, le spezie, i condimenti.

sopa de ajo

Con le pizze nel 2013 mi sono tolto una grande soddisfazione: ho provato il mio lievitato in un vero forno a legna, con risultati molto incoraggianti.

pizza nel forno a legna

Non è questione di cucina, dicevo. Nel lievito che vive e cresce a casa mia confluiscono meditazioni, affetti, radici. Si chiama lievito madre e mia madre, figlia di un “mugnaio” (in realtà mio nonno era solo dipendente di una società di mulini, ma si sentiva a pieno titolo “dentro” la produzione), naturalmente c’entra. Poi c’è la soddisfazione, quasi la necessità di condividere. Porto sempre un pezzo della mia pagnotta settimanale a qualcuno. Un po’ per non “lievitare” troppo io, un po’ perché il pane va sempre “spezzato”.

pane sezione

E da qui, dallo spezzare il pane, naturalmente si comincia a salire ed è difficile fermarsi. Se si parte con le analogie e i significati spirituali non si finisce più. Ma è così, è vero. Fare il pane cambia. Le relazioni, il rapporto con il tempo e le cose. Toglie la fame (sazia più a lungo del pane comprato, non ci sono dubbi) e fa venir sete di gratuità, di fette sempre più grandi di vita sottratte al calcolo, al dare per avere, al far tornare sempre i conti di tutto. Mette alla frusta i batteri facendoli lavorare sodo e per una buona causa, e nello stesso tempo disinnesca molti parassiti di energia e di vita.

pagnotta integrale a fette

Certo, nell’universo parallelo della panificazione casalinga si incontra di tutto. Ci sono i maniaci. Quelli che solo loro conoscono il vero procedimento (ma davvero? Ce ne sono centinaia e sono tutti validi). Quelli che sono ossessionati dalla forza della farina e ti guardano con aria di commiserazione se non sai dire quante W ha la farina che usi (l’impasto lievita bene: di cos’altro ho bisogno?). Quelli che se non usi farina biologica sei un mezzo delinquente (una delle cose che mi ha sorpreso di più è la validità di alcune farine commerciali che costano un terzo di feticci come la farina di Kamut, e mi piace scovarle, anche nei discount). Quelli che se non macini il grano in casa ma che cosa panifichi a fare? (non ho tempo per andarmi a cercare i grani, magari un giorno mi viene la scimmia e lo faccio; per il resto la macinatura a pietra è importante, lo so, soprattutto per ragioni nutrizionali; ma da grande ingenuo tendo a fidarmi delle etichette delle confezioni, se c’è scritto “macinato a pietra” penso addirittura che sia davvero macinata a pietra. Comunque un bel mulino casalingo prima o poi lo compro. Quando avrò voglia, quando avrò più spazio in cucina… vedremo).

Però ci sono anche persone che vale la pena incontrare e conoscere. Persone che capiscono che il pane non è solo questione tecnica, né di tempo, né di strane filosofie autarchiche che lasciano il tempo che trovano. Il pane serve per seminare umanità. Il mio lievito vive già in altre case, prolifera e si differenzia come è giusto che sia. A volte lo invidio. Vorrei essere adattabile, essenziale e produttivo come lui.

2 Gennaio 2014

Certezze 2013. Speranze 2014.

Filed under: chiedici le parole — alessandro @

La strutturale ciclotimia italiana ha prodotto tra il 31 dicembre e il 1 gennaio la solita altalena tra invettive ed entusiasmi, come se un anno appena concluso potesse davvero essere gettato via caricandolo della colpa per le cose andate male e un anno appena cominciato potesse davvero reggere il peso di attese di cambiamento per lo più sproporzionate.

L’anno più difficile della mia vita fino ad oggi è stato il 2003. Davvero difficile. Ma quando ha preso congedo non l’ho insultato.
Ogni 31 dicembre invece mi trovo circondato da maledicenti di ogni sorta. E non riesco mai a capire da dove viene questo bisogno di maledire, di dissociarsi da una frazione del tempo come se fosse stata soltanto subìta.

Il 2013 per me è stato un anno di passaggio. Un anno che mi ha chiesto prevalentemente di “stare”, di ascoltare e di servire. Le prime due cose mi riescono abbastanza bene da sempre. La terza ho dovuto impararla quasi da zero.

Le domande e i desideri che mi lascia l’anno appena passato sono tanti. Troppi per spiegarli e scriverli qui. Posso però fare un elenco delle certezze, delle acquisizioni dalle quali posso ripartire: certezze che dettano anche le direzioni e le speranze per l’anno che è appena cominciato.

Ho una bella famiglia. Non da mulino bianco, tutt’altro. Ma una famiglia che con il tempo ha imparato a dare il meglio nelle difficoltà. Ed è pronta a imparare qualcosa di nuovo. Anche da nuove difficoltà ma se fosse anche da qualcosa di bello non farebbe schifo, ecco.

Sono un pellegrino. Dopo tanto vagare da un’esperienza ecclesiale all’altra, un vagare condito di qualche senso di colpa perché avevo il sospetto di non saper andare a fondo di nulla, ho capito che la forma del mio essere cristiano è quella del pellegrino. E l’ho capito non per aver pensato, ma per aver camminato e per aver permesso che il cammino invadesse la mia vita. Mi sono sempre fermato dove ho trovato nutrimento, ma non ho mai potuto resistere all’impulso di ripartire. Non devo farmene un cruccio: è giusto così, per me. È soprattutto l’unico modo in cui anch’io posso dare qualcosa, ed è questa la grande scoperta, la grande sorpresa. Non sono mai stato davvero fuori posto e non mi sentirò mai più così. Esserne finalmente consapevole cambia di segno e aumenta di intensità la mia appartenenza alla Chiesa.

Sono un giornalista. Questa è la mia vocazione professionale, non ho dubbi. Aspetto ancora che un’autorità lo riconosca pienamente e formalmente, ma intanto ho fatto dei passi avanti e in ogni caso non “pendo” più da questo riconoscimento. Mi servirebbe energeticamente per chiudere un cerchio che ho cominciato a disegnare ormai vent’anni fa. È importante e farò il possibile perché avvenga, ma non è più fondamentale.

La dialettica non è un fine. Amo discutere, soprattutto di questioni legate in qualche modo ai massimi sistemi. E mi piace “sentire” quando ho ragione e non fermarmi di fronte a niente e a nessuno, perché la verità ha le sue esigenze. Ma quest’anno ho provato un gusto diverso: usare la dialettica non per sbaragliare, non per far cadere muri, ma per andare a piantare semi in campi ostili. Apparentemente ostili. E poi affidarli, perché l’acqua, il sole, il nutrimento non posso essere io a provvederli, laggiù.

Buon anno a tutti.

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