Cronachesorprese

22 Dicembre 2010

American life (Away we go)

Filed under: lo spettatore indigente — alessandro @

american life locandinaChe bello è andare al cinema a pochi giorni da natale nella multisala più grande della città con un manipolo di pochi amici giusti e, in perfetta intesa, riuscire a dribblare tutti i cinepanettoni senza tentennamenti.
Non solo. Entrare nella sala 13 (non certo la più piccola) per il secondo spettacolo e constatare che è tutta per noi e che ci possiamo allargare con cappotti, sacchetti delle spese natalizie, berretti antineve, sciarpe. Possiamo anche allentare un po’ le stringhe delle scarpe troppo pesanti. E goderci il film in pace senza subire le solite angherie di brusii e commenti ad alta voce.

Ma è solo l’inizio. La migliore sorpresa è scoprire, serendipicamente, che avendo noi cacciato dalla porta il cinenatale consumistico ci rientra dalla finestra il natale vero. Per capire di cosa sto parlando non vi basterà cercare trame e recensioni dell’ultimo film di Sam Mendes. Non credo che verrà presentato come un film di natale. Ma lo è. Sotto la dura scorza dello spaccato di società americana post crisi economica è un vero racconto di natale.

Cosa intendo per racconto di natale? Intendo un racconto in cui emerge una novità forte e inesorabile, annidata e nascosta nel punto più ignorato e indifeso di una storia. Nonostante qualsiasi avversità. Direi nonostante qualsiasi possibile malinconia. Si può fare un racconto di natale anche raccontando soltanto i rifiuti, i fallimenti, i tentativi andati a vuoto, le richieste di aiuto inascoltate, i vicoli ciechi in cui insistono vite giovani che hanno speranza ma non hanno ancora trovato, più che le condizioni, un metodo convincente per farla agire. Si può fare un racconto di natale senza un lieto fine, ma dimostrando che il buon inizio c’è tutto, è già certo e compiuto. Si può fare un racconto di natale sfogliando come un carciofo un affetto, un progetto di vita e di famiglia, per trovarne la vera consistenza.

Lo sguardo di Mendes riesce a fare tutto questo. L’immagine in movimento sembra voler abbracciare tutto ciò che insegue e racconta. Come un segugio scova una tenerezza immensa sotto una coltre di malinconia che sembra coprire tutto, come il succo d’acero che in una scena uno dei personaggi versa su un piatto di pancakes in cui ha allestito estemporaneamente la rappresentazione allegorica di una famiglia. Vorrebbe dire che l’amore va versato, donato generosamente. Ma il pancake rischia di diventare immangiabile, e lui non vuole curarsene.

C’è un nesso inestricabile tra l’eccesso di buona volontà e la malinconia che a tratti ci tocca attraversare. C’è un nucleo di novità che resiste sempre, finché c’è qualcuno da guardare.

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