Cronachesorprese

4 Settembre 2009

Il passato, il presente e l’Avvenire

Filed under: cronache — alessandro @

“La Chiesa ha altro da fare che difendere a oltranza una persona per quanto gratuitamente bersagliata”. “Bisognerebbe che noi giornalisti ci dessimo un po’ meno arie e imparassimo ad essere un po’ più veri secondo una misura meno meschina dell’umano”. Boffo è stato un grande sia nei quindici anni di direzione, sia nel momento delle dimissioni.

Quando frequentavo la parrocchia mi capitava, a volte, di vendere Avvenire all’uscita delle messe domenicali. Non rischiavamo mai di esaurire le copie… erano gli anni ottanta e il quotidiano non si segnalava per particolari pregi giornalistici: si faceva leggere solo per qualche pagina culturale e per i commenti. Mi ricordo in particolare quelli di Piergiorgio Liverani impegnato come pochi altri a denunciare e smascherare, con ironia e cultura, aporie, contraddizioni e ipocrisie dell’ideologia abortista. Poi c’era la pagina di informazione sulla Chiesa locale che era (quasi) sempre utile. Ma per il resto anche un ragazzo percepiva che come cronaca non era alla pari degli altri quotidiani. Un esmpio divertente: nel febbraio del 1987 morì Claudio Villa. Era il sabato sera conclusivo del Festival di Sanremo e Pippo Baudo diede l’annuncio della morte in diretta TV. Il giorno dopo tutti i giornali avevano in prima pagina la notizia, seppure con pochi approfondimenti. L’Avvenire aveva un trafiletto: “Claudio Villa è grave” :-)

Con Boffo le cose sono cambiate. Oggi Avvenire è un ottimo quotidiano, con in più il vantaggio di non essere legato all’ “agenda” dei quotidiani nazionali più importanti. Come Il Manifesto anche l’Avvenire si distingue spesso per scelte controcorrente nella gerarchia delle notizie. Non ho mai preso l’abitudine di leggerlo regolarmente ma tutte le volte che sono andato a cercarlo, o che l’ho trovato seguendo gli argomenti che mi interessavano, non mi ha mai deluso.

Ora la Cei con la nomina del successore dovrà dimostrare che le parole di apprezzamento rivolte da Bagnasco non erano parole di circostanza. Che non sia una nomina “politica” né nei confronti della Chiesa né nei confronti dell’Italia. Il profilo del nuovo direttore dovrebbe almeno mostrare che i complottisti alla Don Gallo come al solito parlano a vanvera.

3 Settembre 2009

Libertà di stampa e di indignazione

Filed under: cronache — alessandro @

Ieri l’ho sentito D’Alema alla festa del PD. Dice che gli attacchi di Feltri a Boffo sono squadristi, che tutti dobbiamo indignarci, che la libertà di informazione non può essere solo una battaglia dell’opposizione e che pertanto pensa che la manifestazione che si farà tra una ventina di giorni a Roma non dovrebbe essere una roba di partito ma dei cittadini tutti.
Evabbene, che dire: “speriamo”? Giuro che se davvero si garantisse la totale assenza di bandiere di partito di qualsiasi genere un pensierino a partecipare alla manifestazione lo farei, perché anch’io penso che la reazione di Berlusconi contro la stampa non dovrebbe stare né in cielo né in terra, tantomeno a Palazzo Chigi.

Però intanto come non ricordare, come fa opportunamente Polisblog, come reagirono lui e Prodi una decina d’anni fa a qualche vignetta e a un’inchiestina liscia liscia, senza veline, senza documenti costruiti ad arte? Ed è vero che D’alema la querela l’ha ritirata in un secondo momento, però intanto la reazione era stata quella. Se questi atti hanno valore di intimidazione, anche in quel caso l’intimidazione andò a segno.

Io di fare l’indignato permanente non ne ho molta voglia. Ma se proprio devo spendere un po’ di indignazione per una giusta causa vorrei che i criteri fossero gli stessi per tutti. Indignamoci sempre, indignamoci tutti.

2 Settembre 2009

Now-here place

Filed under: chiedici le parole — alessandro @

Con questo racconto ho partecipato nel giugno 2006 a Giro rapido, un concorso indetto da Porsche Italia e Gente viaggi. Chiedevano di scrivere un racconto sul tema del viaggio (io scelsi tra le tracce disponibili “Il paese che non c’è”) in 911 minuti. Ho passato la selezione genovese e ho partecipato alla finale a 12 in Romagna il mese dopo, senza vincere. È stata una bella esperienza e il racconto ancora oggi non mi dispiace. Chi avrà la pazienza di leggerlo consideri il tempo limitato che avevo a disposizione e perdoni lungaggini, idee abbozzate e mal scritte, scelte sbagliate nella punteggiatura, frasi fatte ed eccessi retorici che sarebbero stati eliminati in fase di riscrittura. Ma mi piace l’idea di riproporre il racconto così come è uscito dai “miei” 911 minuti (non l’ho cambiato se non in pochi passaggi), perché il tempo che dedichiamo a un lavoro, qualsiasi esso sia, ha un valore perché comincia e finisce. Un lavoro che non finisce mai o è vano o è inestimabile. Spero che a qualcuno piaccia il frutto dei miei 911 minuti.

– – – – –

Lui lo cercava da mesi.

Non che se ne fossero perse completamente le tracce. Ma il grande sassofonista Vinicius Melina, detto Ancia del vento, da qualche anno non amava esibirsi in luoghi affollati. Evitava i grandi festival di jazz che l’avevano visto per decenni acclamato dal pubblico e dalla critica. Si diceva che fosse alla ricerca di un po’di tranquillità, che cercasse ispirazione e concentrazione per una sua ricerca musicale e spirituale.

Ogni tanto però si presentava a sorpresa in qualche locale e si esibiva gratuitamente, producendosi, dicono, in assoli e virtuosismi inarrivabili che non facevano sentire la mancanza di accompagnamento di sezione ritmica, fiati e quant’altro. La sua interpretazione degli stili tradizionali e d’avanguardia del jazz stava raggiungendo esiti formidabili e mai sentiti.

Questo per un po’ di tempo. Poi aveva cominciato a disertare anche i locali.

L’avevano visto, e sentito, a Pantelleria.

Il tam tam su internet, già rimbalzato nelle riviste specializzate, sosteneva anonimamente (ma a più voci) che per un certo periodo avesse affittato un dammuso nelle vicinanze di Porto Scauri e si muovesse a cavallo di un cinquantino scassato, il sax inseparabile al collo. Vagava per le strade polverose dell’isola, all’alba o al tramonto per evitare le ore più calde, a cercare angoli reconditi tra le coltivazioni di capperi e l’uva che appassiva al sole impietoso. L’epica confezionata per essere data in pasto alla mitomania degli appassionati arrivava a raffigurarlo in pose prometeiche, ostinato a scontrare i suoni di fraseggi difficili e sublimi contro l’ossidiana che vena la roccia e accompagna la via scoscesa verso Balata dei Turchi, per strappare chissà quali risonanze e armonici alla roccia nera e lucida.

L’avevano sentito, e visto, anche nel sud del Portogallo.

Nella parte meno spettacolare dell’Algarve, nella palude tra Tavira e l’omonima isola costiera che dà sul mare aperto. Si rifugiava chissà dove, forse aveva una tenda sulla sabbia o addirittura tra fango e giunchi, poiché non risultava tra i clienti di nessun albergo o pensione in paese, e neanche di un camping sulla costa; ma non si nascondeva, anzi camminava per chilometri sull’ampia spiaggia ricoperta di conchiglie e ogni tanto concedeva qualche assolo ai campeggiatori fricchettoni (o che amavano, per un mese all’anno, passare per tali). Dicono che la sua musica fosse in quei giorni ritornante e insistente come la risacca del mare, e il suo sax incrostato di sale.

Lui invece l’aveva soltanto sentito, in Argentina.

Sul Rio Tigre, non distante da San Isidro, nella provincia della Capital Federal. Pochi chilometri da navigare dal lindo centro turistico su un corso d’acqua che evoca in piccolo (ma neanche tanto) il Mississippi, e per un jazzista chissà quali suggestioni. Era stato lui, Simon Arcella, uno della stessa schiatta del sassofonista errante, un pianista appassionato e indolente, a riconoscere un passaggio di Swinging stronger than the melody of my heart, un grande brano scritto da Vinicius all’età di vent’anni, croce e delizia di tutti gli interpreti. Nessuna radio, nessun cd, nessuna riproduzione: la voce del sax tenore di Vinicius era viva e squillante. Si interrompeva e ricominciava, ogni volta più vicina all’originale, ogni volta sideralmente lontana da qualsiasi tentativo di imitazione. Lui, che diversi anni prima aveva avuto la fortuna di accompagnarlo in quello stesso pezzo al Newport Jazz Festival, non aveva dubbi: il fenomeno era lì. Dal battello che stava per terminare il sonnolento giro turistico Simon poteva soltanto immaginarne la presenza, ma sicuramente era rifugiato in una delle tante casette a palafitta in disuso, mezze mangiate dalle piene del fiume. Sorrise deliziato, e parve non pensarci più.

Ma la notte fu quella stessa musica a svegliarlo. Non il caldo della pensione di Belgrano a Buenos Aires in cui era alloggiato per passare parte delle sue vacanze. No, era la voce roca di quel sax che continuava a risuonargli in testa. Come se lo chiamasse.

Passano i giorni, la vacanza finisce e Simon torna nella sua casa di San Francisco. Ma il sax continua a farsi sentire. Forse per farlo tacere (ma più probabilmente per rendere più nitido un desiderio ancora oscuro) comincia a chiedere informazioni agli amici musicisti che incontra.

– “Cosa si sa di Melina?”
– “Poco o nulla. Appare e scompare. Appena si accorge che la gente comincia a parlare di lui fa perdere le sue tracce”.
– “Sai, io l’ho sentito in Argentina”
– E come ti è sembrato? Dicono che stia andando un po’ fuori di testa”.
– Non saprei. Io l’ho soltanto sentito, non l’ho visto in faccia. Se andare fuori di testa significa suonare così, vorrei impazzire anch’io oggi stesso”.
– “Bah, caro Simon, lo sai meglio di me: la musica è un mestiere come un altro. Il musicista suda come un metalmeccanico, ma il metalmeccanico non impazzisce per l’acciaio. Quando si toglie la tuta, alla fine del suo turno, torna ad essere uno tra i tanti. Melina non l’ha mai capito, o non l’ha mai accettato. Grande talento, nessuno lo mette in dubbio, ma ha sempre suonato come se dal suo sassofono dovesse uscire chissà cosa. Diamanti o pietre preziose, o anche conigli e criceti, non so: ma qualcosa di diverso dalla musica e dalla condensa del suo fiato. Io dalla mia tromba vorrei che uscisse una vita tranquilla, non chiedo tanto”.
– “La musica di Vinicius è diversa. Lui è diverso. Non può essere un caso che continui a vagare come se non riuscisse a trovare riposo: lui è uno che ha avuto la fortuna di non lasciarsi ammazzare dalla routine. Sempre in ricerca, sempre in viaggio”.
– “Fortuna? Certo, un po’ di bigliettoni in più di te e me li ha messi da parte. Ma se continua così corre il rischio di mangiarseli tutti, e non ha ancora passato la cinquantina. Non fa più un concerto, un’incisione, non concede neanche un’intervista. Prima o poi la pacchia finirà, nessuno si ricorderà di lui e si ritroverà con il culo per terra. No caro Simon, io non lo invidio”.

Simon la pensa diversamente. Forse neanche lui lo invidia, ma è affascinato da quell’idea di libertà: un viaggio sulle ali della musica alla ricerca di una musica che ancora non c’è. Un pellegrinaggio tra tanti paesi alla ricerca, forse, di un paese che non c’è. Tra vivacchiare a San Francisco da un locale all’altro e andare per il mondo inseguendo soltanto la propria musica non avrebbe dubbi sulla scelta da fare, se fosse in grado di scegliere.

“Vinicius Melina”. Enter.

Migliaia di risultati nel motore di ricerca ordinati per rilevanza. Il sassofonista errante ha suonato nel Souk di Casablanca, in un villaggio ai margini della foresta amazzonica, nelle miniere abbandonate dello Zimbabwe. I concerti estemporanei coprono un arco di tempo dai due anni a due, tre mesi prima dell’episodio sul Rio Tigre. Niente di più recente. Simon comincia una ricerca febbrile, scrive agli indirizzi che trova, cerca di avere informazioni sulle testimonianze più attendibili. Melina si ferma in media in uno stesso luogo per sessanta giorni, a volte qualcosa di più, a volte qualcosa di meno. Il punto è avere informazioni fresche che garantiscano la sua presenza in un luogo a non più di venti giorni da un avvistamento in un luogo diverso: a quel punto si può ragionevolmente sperare che non se ne vada immediatamente, e rischiare un viaggio. Simon ha deciso: vuole incontrarlo.

L’informazione buona arriva finalmente dopo mesi. Vinicius sta percorrendo il Camino verso Santiago di Compostela: non si sa da dove l’abbia cominciato ma è già in Galizia, forse a non più di un centinaio di chilometri dalla meta. Ci sono buone probabilità che la sua destinazione sia quella di tutti i pellegrini, come dicono testimonianze concordi raccolte da alcuni che l’hanno incrociato sulla loro strada. Vinicius appare pelle e ossa ma molto energico. Segue quasi regolarmente il Camino principale, con piccole e imprevedibili deviazioni per non essere troppo rintracciabile.
L’hanno visto a Ponferrada, l’hanno visto a Melide; alcuni sostengono di averlo visto circa venti giorni prima anche a Roncisvalle e Pamplona, ma Simon sa che queste informazioni sono in contraddizione con altre che davano Vinicius in altri luoghi, ben distanti dalla Spagna, nello stesso periodo. Quindi non sa quanto siano attendibili anche le indiscrezioni che ora lo danno più vicino alla meta. Ma lui è a piedi, con sulle spalle uno zaino come un normale pellegrino e al collo il sassofono al posto della tradizionale conchiglia. Prima di Santiago non ci sono altri aeroporti internazionali: anche se volesse fuggire, dovrebbe arrivare alla meta naturale della strada che sta percorrendo. Se non in quella città potrà trovarlo in zona, con un po’ di metodo, pazienza e fortuna.

Santiago assomiglia tanto a una città ideale per uno come Vinicius, pensa Simon mentre passeggia assorto per le vie del centro storico. Non troppo grande, non troppo piccola. Una città vera, con tutti i servizi di una città, ma circondata da boschi e natura selvaggia, e non molto distante dal mare. Un mare che parla; di più: un oceano che urla in faccia a un continente.
“Un mare che suona con il vento, e anche questo piacerà a Vinicius”.

Nel luogo dove, secondo la leggenda, arrivarono le spoglie dell’apostolo Giacomo dopo essere approdate miracolosamente sulla costa della Galizia, niente è statico e imbalsamato. Sembra che tutto possa e debba ancora accadere. Ma la città soprattutto è un luogo sempre attraversato da gente diversa. Dove se vuoi puoi passare abbastanza inosservato. Dove la stranezza e l’originalità dei visitatori sono qualcosa che non fa notizia. Tra pellegrini e studenti universitari le strade del centro sono sempre piene di gente e di vita. I ragazzi riempiono i locali, bevono, si divertono e ascoltano musica, ma non hanno le facce di certi giovani delle metropoli nordamericane, incattivite dallo stress e dalla violenza che respirano ogni giorno.
“Anche questo piacerà a Vinicius. Suonerà volentieri, qui. E io con lui”.

Pellegrini appena giunti, in attesa di entrare nella cattedrale. Simon si avvicina.
“Avete notizia di un pellegrino con il sassofono?” Nein, nada, nao, no. Simon risale il lungo serpentone variopinto di uomini e donne ripetendo la stessa domanda in inglese e approssimativamente in altre lingue. Si rivolge in particolare ai ragazzi che portano uno strumento, chitarre, armoniche: loro dovrebbero averlo notato. Ma niente. Simon passa quasi un giorno intero a chiedere la stessa cosa a chiunque incontra, per le strade, nei locali, ma sempre senza esito. Poco dopo il tramonto si siede sui gradini di un antico palazzo nobiliare, pensando che tra non molto si rifocillerà con un pulpo alla gallega e riprenderà le ricerche il giorno dopo; quando a un tratto, in fondo alla strada a non più di cento metri di distanza, scorge nel crepuscolo una sagoma che lo fa sussultare. L’ombra cammina spedita e assorta, la testa leggermente piegata, al collo qualcosa di ingombrante che sporge dal profilo. È un attimo e l’ombra scompare dietro l’angolo. Seppur esausto, Simon scatta in piedi e si getta all’inseguimento.

Non vuole fare troppo rumore, non vuole spaventarlo: arrivato all’angolo frena per non irrompere nell’incrocio. Giusto in tempo per vedere la sagoma svoltare nuovamente in una delle strade più larghe che attraversano il centro in direzione della cattedrale. Simon accelera, perché la strada in quel punto è affollata e non corre più il rischio di farsi sentire, ma piuttosto di perdere di vista la sua lepre. Ora si fa largo e sgomita tra i ragazzi che ridono e cantano. La sagoma è ancora lontana e a tratti scompare. Ma la direzione sembra quella della cattedrale. Una volta in piazza dovrebbe essere più visibile, e Simon si sta avvicinando. Arrivato in piazza, però, non vede più nessuno. Simon non ha più fiato e non sa più da che parte andare. Ha la chiesa di fronte a sé. A destra ricomincia il giro dei vicoli in altra direzione, a sinistra si va fuori dalle mura. Vinicius non è in nessun luogo.

Simon sente nuovamente il rumore dei propri passi sul selciato, mentre ritorna verso il dedalo dei vicoli, circospetto, cercando di indovinare la direzione giusta. Il chiacchiericcio dei passanti, in sottofondo, non basta a coprire la musica ad alto volume e la caciara degli avventori dei locali. C’è sempre una parte attiva della coscienza di Simon che cerca di distinguere, in quel magma di suoni, una traccia inconfutabile della presenza di Vinicius.
Così quella nota soffiata, seppure di molti decibel sotto al livello medio del rumore di fondo, non passa inascoltata. Non è vicinissima, ma è netta.

Simon si ferma, pare implorare alla gente che ha attorno il massimo silenzio per non ostacolare la ricognizione della traccia successiva. Che arriva più nitida, e suggerisce una direzione. Pochi passi, la svolta in un vicolo, in un altro. Dieci, venti metri, e scorge l’ingresso di una specie di pub con ampie vetrate colorate sulla strada. Molta gente si accalca davanti all’ingresso. Il locale è pieno ma attraverso la vetrata Simon scorge nuovamente la silhouette dell’uomo che sta inseguendo da mesi. A vederlo così, a breve distanza seppure attraverso un filtro, Simon non ha più dubbi. Cerca di entrare, ma viene respinto. Pare che la gente si appresti ad ascoltare qualcosa di straordinario, e non voglia perdere le posizioni migliori. Anche fuori si predispongono all’ascolto. Il pianista, giunto alla meta, si tranquillizza e si adegua.

“Non sei più un fantasma, sei finalmente in un luogo, anche se sembri ancora evanescente. E ti appresti a fare quello che hai sempre fatto, ciò che sai fare meglio di qualunque altra cosa, ciò per cui sei nato. Ora suonerai, io ti ascolterò come tutti gli altri e poi ti abbraccerò. Come questi pellegrini hanno abbracciato dopo quasi mille chilometri la statua del santo che sentono fratello e amico, non Dio giudice lontano e impietoso. Perché anche lui ha bisogno di un luogo, per essere conosciuto”.

“Suona, fratello, suona. E rispondi, anche senza parole ma con il linguaggio che ti è più familiare, a una domanda semplice semplice: dove stai cercando di andare? E (forse tu lo sai) perché IO ti ho seguito fin qui?”

Una nota, due. Vinicius Melina saggia la risposta del sassofono con piccoli soffi ripetuti, imponendo senza volerlo l’attenzione generale. Qualche scala, tanto per scaldarsi. E senza soluzione di continuità eccolo annunciare il tema di To live the life I’m livin’, brano arduo come pochi, con ripetuti cambi di tonalità e ritmo. Simon chiude gli occhi e prova a immaginare un batterista che provasse a stargli dietro, in questo momento. E un pianista, poi… non ne parliamo. Alla fine di un assolo Vinicius ripropone il tema, conclude con un soffio che pare l’ultimo respiro e approda al breve silenzio che lo separerà dagli applausi e dal secondo brano. Che pare non arrivi. Dai gesti attraverso il vetro Simon capisce che Vinicius sta chiedendo silenzio. Subito dopo distingue la mano che si alza e si abbassa per dare un ritmo, e il suono di dita che schioccano. Tutto il pubblico fa lo stesso.

E su quel letto ideale riprende il sax. Ma il tema, questa volta, è sconosciuto. Anche all’orecchio esperto di Simon. Passa in rassegna mentalmente tutto il Real book, le rarities, niente. Questo è un nuovo brano, questa è un’anteprima assoluta. Il tema si ripete due o tre volte e poi, sullo stesso motivo, attacca finalmente la voce di Vinicius. Simon sente salire l’emozione, perché Vinicius Melina, a memoria di tutti i musicisti viventi, non ha cantato mai niente.
Neanche Lui è un bravo ragazzo.
Neanche Yankee Doodle.
Neanche Tanti auguri a te.
Canta ora, con una voce roca che sembra abbia imparato ad articolare i suoni dal sassofono.

“A place where to stay,
I wish I’d know where is.
A place where I can play,
a place just for me.
Clean like a major chord,
without wrong additions;
sweet like a minor chord,
without strange variations.
Where climb a ladder in a breath,
without pain;
where take the A train every time,
and never in delay.
A place that is body,
a place that is soul.
A place like a music,
a place that is nowhere…

Or maybe now and here.”

1 Settembre 2009

Le 17 domande di Avvenire a Repubblica

Filed under: cronache — alessandro @

Qualcuno poco meno di due anni fa scrisse queste parole:

La Chiesa parla, ma loro si sentono giudicati, e a quel punto la trovano insopportabile. E se non si zittisce da sola, non disdegnano modalità spicce per intimidirla, irridendola e mettendola alla gogna, che poi è il supplizio più sottile della nostra epoca.

“Loro” sono anche i (o quantomeno sono ben rappresentati dai) giornalisti di Repubblica. Chi scrive invece è il direttore di Avvenire Dino Boffo nell’introduzione alla Vera questua, ottima controinchiesta di Umberto Folena a una tendenziosa inchiesta di Repubblica sull’otto per mille che circola ancora come se fosse vangelo, tanto qualcuno che abbocca c’è sempre.

La controinchiesta si conclude con uno specchietto che riassume in diciassette punti le incongruità rilevate nell’inchiesta di Curzio Maltese. Sono un po’ come diciassette domande che il giornalista di Avvenire, con l’avallo autorevole del suo direttore, rivolge a Repubblica perché risponda e faccia chiarezza. Perché si difenda, insomma: giacché dalle ben documentate pagine di Folena è evidente che il lavoro di Maltese è ben lontano dall’essere un’accurata inchiesta giornalistica ma appare piuttosto come un libello propagandistico costruito per gettare fango sulla Chiesa cattolica.
Avvenire nella circostanza non faceva altro che accogliere un invito del direttore di Repubblica Ezio Mauro: ““Saremo ben lieti di correggere gli errori in cui siamo incorsi, se riceveremo richieste di rettifiche che non sono arrivate, perché nessun punto sostanziale del lavoro è stato confutato.”

Le confutazioni dunque arrivarono, ma Repubblica non rispose. Non ha mai corretto, non ha mai chiesto scusa per avere pubblicato notizie false, non ha mai fatto ammenda di fronte ai suoi lettori per il cattivo servizio.

La cronaca di oggi parla di altro, è vero. Parla dell’ennesima figura di palta di Vittorio Feltri e di un’inedita e accidentale convergenza tra Avvenire e Repubblica e in particolare tra i suoi direttori Boffo e Mauro, coinvolti entrambi nel maldestro tentativo del Giornale di restituire pan per focaccia alla campagna delle dieci domande portata avanti da mesi da Repubblica.

Boffo fu signore ieri come lo è oggi. Non infierì contro un quotidiano che aveva sbagliato ma rimane pur sempre un grande quotidiano, una voce importante dell’ informazione italiana che è e rimane libera nonostante le intimidazioni. Oggi, anche se non può fare a meno di querelare Feltri e il Giornale, non sembra animato da propositi di vendetta o di rivalsa personale: vuole solo ristabilire la verità.

Però le parole di quell’introduzione rimangono l’interrogativo vero e più urgente a cui rispondere. Se infatti è chiaro a tutti l’uso strumentale che ha fatto il Giornale di una velina, resta da chiarire chi ha spedito quella velina ai vescovi italiani prima di pasqua, cioé ben prima che scoppiasse il caso Noemi e che Repubblica avanzasse le sue dieci domande. Feltri ha venduto veline per documenti giudiziari ma non ha fabbricato l’accusa originaria a Boffo. Non è il Giornale il nemico ultimo di Boffo e della libera informazione di parte cattolica. Ed è difficile ipotizzare che quella polpetta avvelenata venga da ambienti collegati al Pdl o addirittura da avversari dell’attuale direttore di Avvenire interni alla Cei.

Sono soprattutto altri quelli che trovano insopportabile (parola di Boffo) la libertà della Chiesa di parlare, di informare, di far sentire la sua voce nella società. O no?

aggiornamento del 7 settembre
Oscar Giannino su Sussidiario analizza molto bene il “cui prodest”… notare soprattutto i punti quattro, cinque e otto.

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