Questa sera un silenzio pesante ha accompagnato le abituali vignette di Vauro alla fine di Annozero. Le vignette non erano neanche male (soprattutto l’ultima: macerie sullo sfondo, Berlusconi vestito da Nerone con la lira in mano e l’immancabile sorriso: “ecco a voi the new town!“) ma la gente non ha voglia di ridere, e ci sta. Tuttavia capisco e approvo la scelta di Santoro: le vignette ci stanno anche in questa occasione. In un’altra recente circostanza drammatica, la guerra di Gaza, Vauro ha fatto una scelta diversa e polemica: al posto delle vignette ha disegnato dei giochi per bambini che ha idealmente regalato ad alcune piccole vittime dei bombardamenti. Satira anche questa? Sì, se si ammette che la satira non ha come scopo principale la risata o la sdrammatizzazione, ma la rottura di uno schema, un punto di fuga dalle considerazioni necessarie sui fatti (senza dimenticarli) che aiuta a pensare. Non tutte le vignette di Vauro sono riuscite, alcune sono decisamente fiacche e non sempre esprimono valutazioni che condivido; ma mi piace che quella voce, quello sguardo sia sempre presente qualunque cosa accada.
Faccio una considerazione analoga per Spinoza il cui primo post di battute a tema terremoto ha dato vita a una discussione abbastanza accesa, nei commenti, sull’opportunità di “ridere delle tragedie”, che mi sembra un modo riduttivo di vedere la cosa. Una commentatrice opportunamente ha risposto: solo gli uomini riescono a ridere della morte. Non è necessario spiegarlo: si ride per sentirsi uomini prima che per denigrare o mancare di rispetto. C’è anche un genere di satira adatto a momenti come questo, ne sono convinto. Per lo meno, vorrei che chi fa satira non smettesse di cercarlo.
E poi ci siamo noi, i giornalisti. Si sa che l’umorismo involontario è sempre il migliore. Avevo visto il servizio delle interviste agli accampati in macchina, non sapevo che era stato ripreso da Striscia la notizia ma mi sono reso conto subito che la candidatura al Pulitzer era già implicita.