Non ho più rivisto da nessuna parte l’eccezionale intervista di Giuliano Ferrara a Giulio Andreotti. Era il 1993, erano i tempi in cui si discuteva l’autorizzazione a procedere. O forse era appena stata concessa e ci si preparava a vedere il sette volte presidente del consiglio alla sbarra degli imputati.
Se avessi voluto girare un film su Andreotti, probabilmente sarei partito da lì. Perché non mi era mai capitato di vedere un Andreotti così furiosamente determinato. Lucido, perché non è possibile pensare a un Andreotti che non sia lucido, anche nella rabbia. Ma furioso, indignato di vera indignazione. L’ho vista solo una volta quell’intervista ma la ricordo benissimo, ricordo i passi salienti, ricordo le battute più sarcastiche, così poco andreottiane. “Leoluca Orlando dice: non ho dubbi che Andreotti sia mafioso”. “E vabbé, allora io dico che lui ha delle case di tolleranza a Shangai, e vediamo”. Cose così che gli uscivano fluenti, non le solite battute tornite, levigate, gustate in chissà quante preventive meditazioni.
Chi se la ricorda quell’intervista? I padroni della grande narrazione colpevolista si guardano bene dal ripescarla. Ripescano il fermo immagine del sorrisetto di Andreotti il giorno dopo l’omicidio di Lima, un attimo prima di rispondere a una giornalista che chiedeva: “cosa succederà adesso?”. Sorrisetto che non vuol dire assolutamente niente. Soprattutto se non fanno mai sentire quello che Andreotti ha risposto davvero. L’intervista di Ferrara non la fanno vedere perché sanno che Andreotti in quella circostanza ha comunicato davvero la sua posizione e convinzione più intima a chi era abbastanza libero dalle narrazioni per intenderla. L’ha comunicata meglio che nei memoriali letti al processo, serrati e logicamente indefettibili.
Io sarei partito da quello. Ma non voglio sminuire i meriti del film e del regista Sorrentino. Che è stato sicuramente “cattivo”, come ha detto il senatore. Ma Sorrentino ha restituito non la storia di Andreotti politico, né tantomeno di Andreotti uomo; ha restituito la storia della narrazione Andreotti, con grande intuizione artistica ma anche con rigore documentario. Sorrentino ha raccontato quello che molti si sono raccontati su Andreotti. Ha raccontato il simbolo, ha raccontato la percezione del potere indotta da una propaganda che è faccia di un potere anch’esso storia d’Italia, e che spero non vinca la sfida di una storia che è ancora da scrivere sul primo mezzo secolo di storia repubblicana. Lo è quanto la pilatesca sentenza di cassazione che sta fruttando tanto, oggi, al talento affabulatore di un Travaglio, per fare l’esempio più illustre e attuale. E Sorrentino è piacevolmente ambiguo quando lascia intendere che, forse, un pochino di ironia non guasterebbe neanche agli affabulatori di professione. Stupenda ad esempio la scena di Andreotti con il fucile da caccia. O quella dell’Andreotti “punciutu”, che fa (ovviamente): “ahi”.