Esiste la giustizia in Iraq? È possibile amministrare la giustizia a Baghdad? Penso ai giudici che stanno decidendo della sorte dell’ex dittatore e considero che, processandolo, stanno rischiando la loro stessa vita. Sono particolarmente coraggiosi? Che lo siano o meno, non hanno scelta: o celebrano il processo, o celebrano il funerale del loro neonato e malnato stato di diritto.
Non hanno scelta neanche a pronunciare la condanna a morte. Io, come la maggioranza degli italiani, sono assolutamente contrario alla pena capitale. E mi sento tanto, tanto buono a dirlo e a pensarlo. Ma quanta vigliacchieria può nascondere, a volte, una dichiarazione di principio. E quanto poco realismo. Se l’attuale sistema giudiziario iracheno prevede la pena capitale, non applicarla nel caso di Saddam sarebbe una contraddizione clamorosa che minerebbe alla base la possibilità stessa di celebrare processi equi e credibili nell’immediato futuro. Oppure (voglio sognare un momento) potrebbe essere un’occasione per abolirla del tutto: se la sentenza di appello non confermasse la condanna a morte di un uomo che per decenni ha avuto diritto di vita e di morte su tutto il popolo iracheno, un attimo dopo il governo dovrebbe abolire la pena di morte. Ma ha senso in un paese in cui ogni giorno ci sono decine, a volte centinaia di morti nei mercati, nelle sedi di polizia, nelle case e nelle strade? Un’iniziativa così clamorosa a chi parlerebbe? Soltanto all’occidente. In Iraq e nel mondo arabo non sarebbe compresa.
Poiché ci sono molte prese di posizione ufficiali di europei contro la condanna a morte di Saddam, giustificate da una posizione di principio che in astratto è del tutto condivisibile, vediamo in concreto cosa significa che uno stato occidentale ed europeo come l’Italia chieda, attraverso il suo governo, di non giustiziare l’ex dittatore. La guerra in Iraq è stata inopportuna, ingiusta, disastrosa. Questo lo so con certezza. Ma cosa fatta capo ha. Se da questa catastrofe può nascere qualcosa di buono, non lo so; se la democrazia nascente in Iraq sia davvero democrazia o sia talmente sotto scacco a ogni istante da essere al più un buon proposito abortito, non lo so. Se da occidentale provo a considerare da cosa si può ricominciare, dico: una collaborazione stretta e un aiuto militare e civile costante all’attuale governo iracheno, per non lasciarlo in balia dei fondamentalisti e delle faide incessanti tra sciiti e sunniti e ricostruire; una garanzia attraverso l’Onu di non usare il presidio in Iraq come testa di ponte per sciacallaggi dal sapore neocolonialista, in particolare sulle risorse petrolifere di prim’ordine; un programma di sviluppo serio e inevitabilmente oneroso che riguardi infrastrutture, sostegno all’imprenditoria, connessione stabile e organica con i mercati occidentali.
Sostenere l’opportunità della sospensione della pena di morte per Saddam, oggi, per un governo significa impegnarsi davvero in questo senso. Non si può dire: fate come noi, che abbiamo abolito da tempo la pena di morte e stiamo tanto bene. Una richiesta del genere non può coesistere con un retropensiero che ritenga fatale e inevitabile che il popolo iracheno stia ancora indefinitamente nella sua tragica routine. Perché allora milioni di iracheni potrebbero rispondere: venite a vivere a Baghdad per un mese, poi ne riparliamo della pena di morte. Non dico che non si deve chiedere almeno una moratoria per l’ex dittatore: anzi, si deve chiedere. Ma le ragioni umanitarie, da sole, non bastano. Non sono neanche ragioni.