Davanti a una veduta veneziana del canaletto puoi stare dieci, venti minuti senza stancarti. Ogni cosa era semplicemente se stessa, nel momento in cui quelle immagini si proiettavano dalla camera ottica al foglio del pittore; oggi, davanti ai miei occhi, c’è molto di più. Si possono applicare a queste vedute gli stessi criteri che Roland Barthes suggerisce nel suo libro sulla fotografia, La camera chiara. Barthes spiega come solo lui sa fare che, anche se tendiamo a dimenticarlo, la tecnica fotografica sceglie un modo di rappresentare la realtà, è interpretazione e non registrazione; e poi da semiologo gioca, riflette, allegorizza con il tempo che si è stratificato su quell’immagine. Fa riconoscere che l’immagine è viva non perché pretende di essere oggettiva, ma perché è costruita in modo tale da offrirsi sempre in maniera condiscendente alla percezione dell’osservatore, che è sempre diversa perché si allontana nel tempo il punto di osservazione.
Canaletto si rivolgeva a chi era distante nello spazio, magari immerso nelle nebbie londinesi e voleva sempre avere le immagini della laguna davanti agli occhi; anch’io sono lontano ma non più nello spazio, solo nel tempo, e senza volerlo Canaletto chiede a me lo stesso tipo di astrazione, o di distrazione. Quello che lui voleva funzionasse con i ricchi inglesi dell’epoca funziona anche con me: è come se non sapessi o non volessi sapere che quella non è una ripresa oggettiva ma una sapiente scelta di luce e di particolari, che fanno sempre diversi i pochi soggetti che il venesiàn ritrae con apparente serialità commerciale. Quel cane che gioca, quei due nobili vestiti eleganti che stanno attraccando con la gondola, quel pescivendolo con la sua mercanzia… posso perdermi a esaminare e confrontare i particolari, le figure umane, la vita che è rimasta imbrigliata per sempre in quegli eidola, testimoni inconsapevoli di una quotidianità perduta, commovente quanto e più della vita ripresa nei dagherrotipi di metà ottocento.
E’ quasi una meditazione: a poco a poco il mio occhio diventa quello del Canaletto. Che ha fatto una vita un po’ grama, soprattutto verso la fine. E pensando a tutte le difficoltà che ha avuto, mentre passavo in rassegna le opere raccolte nella bella mostra romana a palazzo Giustiniani, trovavo comunque singolare che la sua matita e il suo pennello siano rimasti sempre così, se non proprio fedeli, almeno innamorati della realtà, senza mai un’ombra di malinconia non dico nel colore e nella luce, ma neanche nella scelta dei particolari. Tutto questo studio paziente e amorevole su centinaia di punti di vista dello stesso soggetto, mentre quel dritto di John Smith lo sfruttava facendo creste invereconde sui dipinti che vendeva per suo conto a Londra, è notevole. Che poi, quando lui stesso andò a Londra per cercare di vendere di persona, gli inglesi, che quando vogliono sanno essere parecchio fetenti, arrivarono addirittura a mettere in dubbio la sua identità. Soltanto un inglese riesce a convincere un altro inglese che qualcosa di buono venga fuori da qualcuno che non è inglese… Magari il venesiàn in trasferta non pronunciava correttamente il th, sarà stato bene per cose del genere che non lo consideravano, ai nou mai cichens. – Chi è esso, Edward? – Canaletto, James, il solito italiano di talento ma un po’ pirla.
Roma, palazzo Giustiniani, 27 marzo 2005