Cronachesorprese

13 Dicembre 2011

Midnight in Paris

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midnight in paris Non so se passa per la testa a tutti, almeno da bambini, di provare una volta il desiderio di vivere in un’epoca diversa da quella che si vive. A me è capitato. Non so se questo significa qualcosa: forse ero un bambino sognatore. Anzi, sicuramente. Penso che sia abbastanza normale: se non capita a tutti, capita a molti. Penso che sognare un’epoca diversa dall’attuale sia una strategia di rafforzamento dell’io, della personalità, un modo di coltivare una certa autonomia e indipendenza di giudizio. Poi si cresce e quell’esercizio viene utile per tuffarsi nel presente da uomini, da adulti.

Midnight in Paris parte da questo vagheggiamento e lo porta alle estreme conseguenze. Facciamo che un turista a Parigi si trovi a sognare la magnifica Parigi degli anni venti, facciamo che gli capiti di essere catapultato davvero negli anni venti tra scrittori, pittori e registi di un’avanguardia artistica che per un uomo del duemila è ormai leggendaria. Il gioco è questo, ed è simile al gioco di Provaci ancora Sam e di La rosa purpurea del Cairo. O alla mitica scena di Io e Annie in cui Mc Luhan interviene direttamente in una normale conversazione tra uomini della strada che parlano di lui. Niente di originale nel meccanismo, molto interessante e divertente tutto ciò che viene fuori.

Mi sono divertito. Tanto. Nella mia scena preferita il protagonista (un ottimo Owen Wilson, molto alleniano per una certa nevrotica fragilità e in un ruolo adatto alle sue migliori caratteristiche, come ai tempi dei Tenenbaum) si trova al tavolo di un bar con Dalì, Bunuel e Man Ray. Non può mancare, ed è un grande personaggio, Hemingway che ricorda tanto come funzione narrativa quella del fantasma di Humprey Bogart in Provaci ancora Sam. Poi Gertrude Stein, Scott Fitzgerald, Pablo Picasso e altri. E soprattutto una donna. Che, come in uno specchio deformante che moltiplica la spinta all’evasione, aiuta il protagonista a relativizzare e a trasformare la nostalgia per un passato mai vissuto. Da schermo per nascondere a strumento per leggere il presente.

30 Marzo 2011

Des hommes et des Dieux

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Sono contento di aver visto questo film ora. Con quello che sta succedendo in Africa, anche se è ambientato in Algeria e non nei luoghi dove c’è la guerra oggi. Ma era da lì che passava la tempesta negli anni novanta. Non la stessa tempesta che sta passando oggi in Libia, in Siria, in Egitto, in Tunisia. Ma neanche del tutto una cosa diversa. La gente muore a causa dell’arroganza, dell’egoismo, della pazzia di pochi. E anche oggi vengono agitati gli spettri di fondamentalismi che non hanno niente a che fare con la religiosità e la spiritualità. Anzi ne sono la negazione violenta, e questo film che l’anno scorso ha vinto il premio della giuria a Cannes lo mostra molto bene, con una semplicità e una verità che non ammette repliche né distinguo.

Un lungo e intenso brivido di due ore. I trappisti zappano la terra, curano i malati, accompagnano nei gesti, nelle speranze, nelle sfide quotidiane la gente di Tihiberine, piccolo centro sulle montagne dell’Atlante algerino. Non accade nulla di speciale eppure la tensione monta fotogramma dopo fotogramma. Perché sai che è successo davvero, perché sai che di lì a poco quegli uomini sarebbero morti, perché vedi i segni della guerra e dell’odio che piano piano prendono campo. E avviene davvero così, la guerra non è sempre una sfida in campo aperto, una bomba da cui ripararsi, un colpo di fucile da schivare. La guerra civile passa attraverso i rapporti umani e di lavoro e distrugge il più delle volte con brevi incursioni, soprusi, agguati, piccoli focolai. La tranquillità della vita, la naturalezza dell’amicizia e del lavoro comune sono le prime vittime. E l’obiettivo fisso su questi frati mostra il nocciolo duro che non si può piegare, l’unica realtà che non può essere travolta dalla violenza, neanche quando deve passare attraverso la morte. Non ci si può credere quanto tiene incollati alla poltrona questo film. Con scene come questa. Non ci si può credere, bisogna solo vederlo dall’inizio alla fine per capire.

24 Marzo 2011

Sorpresa: Houdini doodle

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Grazie Google :-)

houdini

Houdini comunque non era un semplice illusionista, come dicono molte delle note biografiche sparse sulla rete. Per me Houdini è un profeta della società dello spettacolo. E anche se per Debord l’idea di “spettacolo” ha ben poco di positivo (perché è marxianamente un grado più raffinato di alienazione) io, come alcuni dei figli della società dei consumi, sono attento a tutto ciò che, dall’interno di una società che nasce su presupposti ostili alla felicità individuale, manifesta l’attitudine a rompere questo schema e a considerare invece in pirmo luogo le individualità e le persone. Che vengono sempre fuori, anche dall’esperimento sociale più massificante.

Come ogni profeta, Houdini annuncia e rompe. Annuncia una novità e rompe uno schema. È come se intuisse che un giorno non lontano ci sarà la televisione. Organizza uno spettacolo televisivo senza televisione, raduna un pubblico che è già televisivo. Ma lui stesso è televisione, quindi rompe, profetizzandola, la distanza strutturale che la televisione sarà. Houdini è televisione di carne e di sangue. Televisione che rischia la pelle, pur di riuscire a lludere. Houdini è furbo, usa la tecnica, usa il denaro, usa carisma e intuizione, ma il suo coraggio è autentico e quando “gioca” a illudere mette tutto se stesso, senza risparmiarsi. Io vorrei che i media oggi fossero come Houdini. Vorrrei che non raccontassero mai alla gente di non lludere, vorrei che umilmente dichiarassero gli strumenti, la forma della loro illusione, e che rischiassero di persona illudendo.

Un altro profeta è Saint Exupery che si scaglia contro chi ha reso il volo un fatto solo tecnologico e ha tolto il fattore umano. E da quel dato della sua esperienza di pilota cominciata in un periodo in cui i piloti rischiavano la vita per aprire nuove rotte, Saint Exupery arriva non solo a odiare e combattere la tecnocrazia nazista (che lui chiama “il moloch”) ma a prefigurare la tecnocrazia futura che dopo la guerra dovrà essere combattuta.

Ma il doodle di Saint Exupery l’abbiamo già visto nel 2010. Le celebrazioni di Google spaziano dalla scienza all’arte, con un debole per i grandi anticonformisti in ogni campo. Mi piacciono quasi sempre.

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22 Dicembre 2010

American life (Away we go)

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american life locandinaChe bello è andare al cinema a pochi giorni da natale nella multisala più grande della città con un manipolo di pochi amici giusti e, in perfetta intesa, riuscire a dribblare tutti i cinepanettoni senza tentennamenti.
Non solo. Entrare nella sala 13 (non certo la più piccola) per il secondo spettacolo e constatare che è tutta per noi e che ci possiamo allargare con cappotti, sacchetti delle spese natalizie, berretti antineve, sciarpe. Possiamo anche allentare un po’ le stringhe delle scarpe troppo pesanti. E goderci il film in pace senza subire le solite angherie di brusii e commenti ad alta voce.

Ma è solo l’inizio. La migliore sorpresa è scoprire, serendipicamente, che avendo noi cacciato dalla porta il cinenatale consumistico ci rientra dalla finestra il natale vero. Per capire di cosa sto parlando non vi basterà cercare trame e recensioni dell’ultimo film di Sam Mendes. Non credo che verrà presentato come un film di natale. Ma lo è. Sotto la dura scorza dello spaccato di società americana post crisi economica è un vero racconto di natale.

Cosa intendo per racconto di natale? Intendo un racconto in cui emerge una novità forte e inesorabile, annidata e nascosta nel punto più ignorato e indifeso di una storia. Nonostante qualsiasi avversità. Direi nonostante qualsiasi possibile malinconia. Si può fare un racconto di natale anche raccontando soltanto i rifiuti, i fallimenti, i tentativi andati a vuoto, le richieste di aiuto inascoltate, i vicoli ciechi in cui insistono vite giovani che hanno speranza ma non hanno ancora trovato, più che le condizioni, un metodo convincente per farla agire. Si può fare un racconto di natale senza un lieto fine, ma dimostrando che il buon inizio c’è tutto, è già certo e compiuto. Si può fare un racconto di natale sfogliando come un carciofo un affetto, un progetto di vita e di famiglia, per trovarne la vera consistenza.

Lo sguardo di Mendes riesce a fare tutto questo. L’immagine in movimento sembra voler abbracciare tutto ciò che insegue e racconta. Come un segugio scova una tenerezza immensa sotto una coltre di malinconia che sembra coprire tutto, come il succo d’acero che in una scena uno dei personaggi versa su un piatto di pancakes in cui ha allestito estemporaneamente la rappresentazione allegorica di una famiglia. Vorrebbe dire che l’amore va versato, donato generosamente. Ma il pancake rischia di diventare immangiabile, e lui non vuole curarsene.

C’è un nesso inestricabile tra l’eccesso di buona volontà e la malinconia che a tratti ci tocca attraversare. C’è un nucleo di novità che resiste sempre, finché c’è qualcuno da guardare.

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Revolutionary road

5 Novembre 2010

Benvenuti al sud

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Non ho visto l’originale francese di cui questo film è un remake, lo cercherò. Ma sicuramente “tradotto” in italiano sarà del tutto diverso, e per questo l’operazione ha un senso. Se non altro per quei credits alla fine: “si ringraziano gli abitanti di Castellabate e di Usmate”. Questo è il federalismo che vogliamo.

Bisio lo si conosce, al cinema perde qualcosa ma rimane sempre lui. La Finocchiaro conferma la sua grande capacità di calarsi in tanti tipi diversi di donna italiana, e di saper sfumare la sua fondamentale vena comica in tante tonalità interessanti che solo comiche non sono. Valentina Lodovini l’avevo già apprezzata due anni fa in La giusta distanza, un film che avrebbe meritato migliore fortuna: è una delle non molte belle e brave, senza sbalordire ma senza neanche mai sfigurare, che il nostro cinema oggi può offrire. Tutto l’insieme corale di paese è bello, riuscito. Non è niente di nuovo forse, ma un film costruito per andare allegramente e felicemente contro gli stereotipi sul sud (e sul nord) potrà ben permettersi qualche veniale ruffianeria.

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