Cronachesorprese

29 Novembre 2012

A proposito del Buddy Christ

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buddy christNon ho mai capito se erano i bimbiminkia ghignanti a trovare blasfema questa immagine o le loro nonnette rincitrullite (oltre a qualche trombone che protestava e che naturalmente veniva bene come utile idiota per lanciare un film scadente). Forse un po’ tutte queste categorie, comunque confinerei il dilemma al conflitto tra di loro. I bimbi si divertono a provocare le nonnette. Tutto qui.

Scrivo questo perché mi stupisce vedere ancora rimbalzare in rete questa immagine come qualcosa di “mitico”. Davvero ha costituito un passaggio mitico per qualcuno, davvero esistono romanzi di formazione così deludenti? Non so se ho voglia di rifletterci davvero. Clerks era diecimila volte meglio, da tutti i punti di vista.

Per quanto posso pensare io, con la sensibilità di uno che da ragazzo ha capito cos’è la libertà senza mai percepire come liberante la blasfemia, non trovo nulla di realmente “offensivo” nel Buddy Christ. Non solo l’immagine non è blasfema, ma è l’unica trovata decente, di vera critica socioreligiosa, del film di Kevin Smith. Una critica che da cattolico condivido totalmente.

20 Settembre 2012

Perché non vedrò Bella addormentata

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Non al cinema, almeno. Forse tra un annetto me la scaricherò con il Mulo. Come ho fatto con Habemus Papam (e vivaddio se ho fatto bene: che film inutile…)
In un’intervista al Corriere Mercantile di ieri Bellocchio dice:

Sul caso Englaro non c’è stata una contrapposizione netta fra laici e cattolici

Vero.

Anzi ci sono stati credenti come il senatore Marino che si sono subito schierati dalla parte di Peppino Englaro, portando avanti una battaglia sul “fine vita mai, che non obblighi all’accanimento terapeutico contro la volontà del malato.

Anche questo è vero.

Su quest’argomento si potrebbero citare le morti del Cardinal Martini, che scelse proprio di non subire questo tipo di trattamento, e di papa Wojtyla. Il film non è sull’essere pro o contro l’eutanasia.

E questo invece non mi sta bene. Non è accettabile che Bellocchio, che si è preso la responsabilità di fare un film su una vicenda così delicata che ha lacerato così profondamente le persone (sì, le persone, non le parti politiche), si presti ad amplificare questo equivoco. I casi di Martini e Wojtyla non hanno niente a che vedere con quello di Eluana Englaro, e non sto a ripetere le buone ragioni che sono state già esposte molto bene altrove. Bellocchio non lo sa? Può forse non saperlo? “Non si può semplificare”, dice. Ma porgere questo paragone non è ugualmente semplificatorio, se non mistificatorio?
Non andrò a vedere Bella addormentata. E non perché sono “cattolico integralista”, non perché non voglio neanche sentire certe cose. Non è per il film, che può avere anche delle qualità artistiche, ma è per come il regista sceglie di porsi. Ha forse idee diverse dalle mie sul problema enorme del fine vita, ma non è questo che mi allontana dai lui e dal suo cinema. Non voglio assentire alla sua mistificazione di base. Un conto è l’accanimento terapeutico (quello che ha rifiutato Martini e, sembra, prima di lui Wojtyla); un conto è l’eutanasia.

Mi sta anche bene discutere su cosa sia l’accanimento terapeutico, mi sta bene prendere a ipotesi che una condizione come quella di Eluana possa essere in qualche modo “inventata” da tecniche mediche che forse mettono la tecnologia davanti alla necessità di cura. Ma è solo un’ipotesi. Per ora il dato certo è che il Cardinale Martini era in punto di morte, Eluana era viva. Non si deve semplificare. Non si deve tagliare corto su questi argomenti. Non c’è una scelta totalmente salvifica in questi casi: c’è un dolore grande che va accompagnato con tutta l’umanità che riusciamo a mettere in gioco. E non c’è mai un caso uguale a un altro.

18 Aprile 2012

Diaz (Don’t clean up this blood)

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Guerre che scoppiano solo quando finiscono. Ne avevo parlato a settembre, a proposito di un certo decennale.
I fatti della scuola Diaz sono quel genere di guerra. Che uno dice, uno come Vicari, il regista di Diaz: don’t clean up this blood: bisogna ricordare quello che è successo, raccontarlo ai ragazzi che hanno quindici anni perché capiscano. Bene, giusto: raccontiamo. Stiamo fedeli agli atti dei processi, e Vicari lo è (fin troppo, dice Giorgio Viaro, e condivido la sua preoccupazione per la latitanza di un minimo di trasfigurazione artistica che non confonde ma aiuta la memoria). Facciamo sentire almeno con un po’ di fastidio il peso di quei manganelli sulle schiene, sulle facce e sulle teste inermi, ricreiamo quel senso di claustrofobica e rabbiosa impotenza che devono aver provato quei ragazzi in quella scuola. E la pena di essere trascinati sanguinanti e quasi moribondi a Bolzaneto perché l’oltraggio e l’abuso fossero dilazionati oltre il sopportabile, perché il disprezzo fosse inequivocabile. O ancora peggio la paura di essere prelevati da un letto di ospedale, quando legittimamente si poteva sperare di essere ormai al sicuro in mani premurose e caritatevoli. Tutto questo nel film c’è, tutto questo è accaduto, giusto ricordarlo.

Ma come sperare davvero che questo serva perché non accada più? Dubbi ritornanti, mi pare. Da quando la guerra, almeno nei paesi occidentali, si è insabbiata per venire fuori solo in pochi momenti di lucida follia. Il G8 di Genova è una di queste sciagurate epifanie. Ricordare è doveroso, ma per mettersi al riparo serve altro.

Servirebbe anche dimenticare qualcos’altro. O meglio, ricordare che la guerra non è mai buona, neanche quando è rappresentata. Non credo di essere il solo ad aver vissuto a Genova, nei mesi prima del G8, in un clima orrendo e mefitico. E non ricominciamo con le accuse reciproche di parte. La difficoltà nel parlare di quei fatti e nel valutarli è principalmente una: la scena era malata in partenza per responsabilità di tutti. Era fin da mesi prima la scena di una pièce sadomasochistica. Cosa vuoi che succeda in una scena così? Esattamente quello che è successo, ed è andata ancora bene.
Prego vivamente di non leggere queste parole con criteri di parte su chi ha sbagliato “prima”, nella preparazione dello scenario. Lo scenario di una guerra già in atto, che quando scoppierà nella sua manifestazione più cruda sarà solo per finire. E per tornare sottoterra, e arrivederci alla prossima occasione in cui potrà ancora luttuosamente sorprenderci.
Oppure fatelo, via: se proprio non potete farne a meno rinfocolate le vostre fazioni, ma non venitene a discutere con me. Massì, potete anche raccontare fatti interessanti seguendo una tesi, ma non sperate che accetti di incastonare racconti interessanti in tesi precostituite. Non mi interessava allora, non mi interessa oggi. Prenderò gli elementi interessanti delle vostre cronache, valutazioni, analisi e le farò sedimentare in me insieme a tutto ciò che ho accumulato in questi anni.

Ho vissuto come ho potuto quei giorni, da testimone, da osservatore attivo e non da manifestante. Se mi fossi dato un po’ più da fare avrei potuto passare in quel media center, se non la notte, almeno la sera. E invece ero preoccupato soprattutto di tenere la giusta distanza. Non solo per non mettermi in pericolo (in quelle situazioni spesso è puro caso: ero in corso Gastaldi nel momento in cui sparavano a Carlo Giuliani, a trecento metri al massimo di distanza), ma per non dare mai l’impressione di essere con i manifestanti. O contro di loro. Perché la scena era malata, e io lo sapevo.

Però i fatti sono fatti e bisogna ben ragionare partendo da quelli. Purtroppo l’etichetta di più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dalla fine della guerra non è esagerata. Il problema è che viene accettata ed enunciata solo da una parte e quindi rimane incastrata in narrazioni che alla fine non mi convincono. Io mi sono impegnato ad accettarla, il che non vuol dire che accetti totalmente le narrazioni che normalmente la accompagnano.

Il film è da vedere? Consideriamo caso per caso quale tipo di indigenza manifestate da spettatori come me. Concordo con Viaro anche su questo: se non avete idea di cosa sia successo la notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 in quella scuola, correte a vederlo.
Se sapete tutto e provate ancora un po’ di repulsione al pensiero, andate tranquilli: servirà a mettere un po’ di distanza e a farsi qualche domanda più razionale di quelle che ci siamo fatti a ridosso degli eventi.
Se avete seguito il processo udienza per udienza, se avete già visto su youtube i cinque spezzoni del dvdframe G8, il film non aggiungerà molto. Ma probabilmente non ve lo perderete ugualmente.

Se infine siete convinti, come molti ancora sono (sinceramente?) convinti che “dovevano dargliene di più”, non andate a vederlo. Perché probabilmente pensate davvero che a voi non potrebbe mai capitare.

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5 Aprile 2012

Romanzo di una strage

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Il film di Marco Tullio Giordana si dice liberamente ispirato al libro di Paolo Cucchiarelli. Ma per quel poco che so di un tomo di settecento pagine che non credo leggerò mai, forse è il caso di dire che il libro è liberamente tradito dal film nella maggior parte dei punti chiave di una controversa ricostruzione. E sospetto che non sia un male. Ne è certo invece Adriano Sofri, che non ha gradito il film ma soprattutto ha disprezzato il libro, facendolo oggetto di quei sottili sarcasmi di cui è maestro. Il suo pamphlet istantaneo, scritto e pubblicato alla velocità della luce su un dominio acquisito apposta (43anni.it), è abbastanza interessante. La tesi della doppia bomba mi appare in effetti più bizzarra che suggestiva, e averla riproposta non è certo tra i pregi del film di Giordana.

Il merito maggiore è piuttosto l’aver regalato un ritratto un tantino idealizzato ma concreto (e umanamente interessante) del Commissario Calabresi a quarant’anni esatti dal suo assassinio. Mastandrea è bravo e credibile. Bravo anche Favino nella parte di Pinelli, niente male gli altri. Bravo il regista a rendere la crescente tensione che i protagonisti assorbono come spugne dall’ambiente, dalla pressione dei politici e delle piazze, dal clima straordinariamente violento di quei giorni; tensione che trova il primo dei suoi tragici esiti la sera del 15 dicembre in un ufficio della Questura di Milano, scena ricostruita con una certa efficacia. Interessante anche il passaggio della ricostruzione del processo per diffamazione intentato da Calabresi contro Lotta Continua.

Chiudo con una parentesi personale che forse non è molto pertinente, ma chi ama il cinema sa che l’esperienza cinematografica dello spettatore indigente si intreccia inevitabilmente con i ricordi personali. Quando siamo entrati all’Ariston a vedere questo Romanzo di una strage ho notato un sacchetto abbandonato in mezzo alla fila di poltrone davanti alla nostra. Le luci in sala erano ancora accese. Mi sono seduto e ho cercato di non pensarci, ma ho resistito solo pochi minuti: mi sono alzato, ho preso il sacchetto con cautela e l’ho consegnato alla maschera all’ingresso. Era pesante, chiuso con un nodo e, per quanto abbia cercato di sbirciare, non sono riuscito a capire cosa ci fosse dentro. Curioso, no? Curioso trovare un oggetto così proprio quando si va a vedere un film sulla strage di Piazza Fontana. Curioso rimanere inquieti, curioso non poter sopportare l’idea di stare per l’intera durata della proiezione con il pensiero di quell’involucro non identificato a due metri di distanza. Saranno vestigia degli effetti della strategia della tensione. O sarà soltanto una mia piccola paranoia, toh: così se c’è al mondo qualcuno che mi crede paranoico sarà soddisfatto. Queste soddisfazioni bisogna ben concederle ogni tanto. Dirò di più: questa piccola inquietudine che ho patito oggi sembra il contrappasso di una piccola inquietudine che ho fatto patire anni fa ad altri. All’epoca in cui non mi davano del paranoico ma del distratto mi è anche capitato di essere redarguito da un capotreno perché avevo lasciato incustodito un borsone sospetto in uno scompartimento. Mi ero allontanato dal mio posto per cercare degli amici che pensavo fossero sullo stesso treno. Li avevo trovati. Mi ero fermato troppo a chiacchierare con loro. Il capotreno è venuto a cercarmi ed era anche un tantino alterato.
– “Chieda scusa ai suoi compagni di viaggio che pensano che nella sua borsa ci sia una bomba!”
– “Chiedo scusa, disinnesco subito”.

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27 Febbraio 2012

The artist, Hugo Cabret e la fabbrica dei sogni

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Chi li ha visti avrà notato le analogie tematiche tra i due film più premiati agli oscar, The Artist e Hugo Cabret. Due film splendidi, che credo mettano tutti d’accordo.

Non so perché sia avvenuto e non so se sia una coincidenza, ma sembrano quasi due interpretazioni libere sullo stesso tema, come se due autori avessero risposto a un bando che chiedeva di trattare un tema specifico. A grandi linee potrebbe essere: “Alle radici del cinema, la rivoluzione narrativa ed espressiva di una novità tecnologica che ha cambiato per sempre l’immaginazione artistica”. Seriamente, qualcuno più informato di me è in grado di dirmi se è un caso o no? A me sembra davvero degno di nota che nello stesso anno escano due film così.

Che vengano o no da un unico ispiratore o da un’occasione comune, sono due prove di altissimo livello. Trovo giusto il premio a The Artist per l’idea, l’originalità e il coraggio dimostrati: nel 2012 è una gran cosa vincere anche al botteghino con un film muto. Ma l’immersione nel mondo di Hugo Cabret è una di quelle esperienze da cinema che, per una volta, sfrutta al meglio le possibilità del 3D.
Non voglio parlare nel dettaglio degli elementi comuni ai due film perché non potrei evitare di raccontarli, ma sono tanti. In sintesi si potrebbe dire che il cinema, ormai superato e metabolizzato il traguardo dei cent’anni, ha sentito il bisogno di tornare alle radici. Non per un’operazione nostalgia, ma per riappropriarsi di una dimensione originaria del fare cinema che rischia di perdersi. Gaudì diceva che essere originali significa tornare alle origini: questi due film sono originali in questo senso.

A proposito di Hugo Cabret dico solo che da ammiratore di Houdini sono davvero contento di aver scoperto che alle origini del cinema c’è un illusionista come Georges Méliès. A proposito di The Artist dico invece che sono contento di vedere quanto la sola immagine in movimento è in grado di esaltare le doti di un buon regista e quanto è ancora in grado di incantare il pubblico: ci voleva questa boccata di aria pura. Ora però vorrei vedere un film muto ambientato ai giorni nostri. Per me spacca.

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