Cronachesorprese

5 Luglio 2010

Barbera & Champagne

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quartino divinoQuesto è uno dei possibili titoli. Un altro potrebbe essere “Sognando i gamberoni”, per riprendere la suggestione di un’altra canzone ben nota. Ad ogni modo la vineria Quartino Divino a Ovada merita una sosta, o anche una gita dedicata. Per scoprire che barbera e champagne non sono poi così lontani e non c’è bisogno di un incontro interclassista di cuori infranti per vederli insieme, democraticamente, sulla stessa tavola.

Se pensate che lo champagne buono si trovi solo oltre un prezzo che sarebbe un problema per le tasche di un impiegato anche una volta sola al mese, probabilmente potrete calare un po’; se pensate invece che il bianco da aperitivo un po’ mosso che trovate in ogni supermercato valga tanto quanto e non sia necessario spendere di più, dovrete salire, oltre a rivedere un bel po’ delle vostre idee sul vino.

L’oste Giuseppe lavora su un concetto semplice: che sia barbera, che dalle parti di Ovada è ottimo e abbondante, o che sia champagne, che va cercato un po’ più lontano con passione e competenza, il buon vino è accessibile a tutti. Quando trovi una buona coppa di champagne offerta come aperitivo, a un prezzo solo di poco superiore a quello di un buon aperitivo, non torni indietro. Così Giuseppe in sei anni di gestione ha fidelizzato un bel po’ di avventori della zona e ha lasciato un ottimo ricordo anche ai clienti più lontani e loro malgrado occasionali.

Non so se Giuseppe faccia arrivare anche le ostriche. Io sabato sera, quando sono andato a Ovada con alcuni amici, non le ho viste né sulla tavola né sul menu. Ma non ne ho sentito la mancanza. “Taglieri rotanti” con insaccati e formaggi, primi di carne e di pesce non troppo ricercati ma preparati con cura e ingredienti di qualità: aperitivo o qualcosa di più, al Quartino Divino potrete scoprire che pasteggiare a champagne è un lusso che vi potete permettere. L’ostrica non è davvero necessaria. Lasciamola ai clichet. A noi è bastato un ottimo Cliquot. La Vedova si fa sempre apprezzare.

Per una serata speciale vi consiglio di prenotare la cantina climatizzata: due giorni fa con il caldo che faceva è stato molto piacevole visitarla, ma dev’essere niente male cenare proprio lì sotto, sulla tavola apparecchiata con gusto e al cospetto di bottiglie e bottiglioni che occhieggiano da contenitori di ogni forma e dimensione. Un po’ aperti, un po’ chiusi e semichiusi; un po’ in ordine, un po’ in un disordine molto ben studiato. Una cura che si riscontra anche nell’allestimento della sala principale. La scena è tutta enologica ed “eNografica”, con centinaia di bottiglie in bella vista e una fantastica teca in vetro piena di tappi di sughero che occupa un’intera parete.

Io ci torno. Sicuro. Non so se ce la farò per la quinta festa dello Champagne Drappier, ma non passerà il 2010 senza che torni almeno una volta. E vi dirò se la seconda avrà confermato l’ottima impressione della prima visita. Non ho molti dubbi in proposito.

5 Giugno 2010

Cerco la chitarra del trentennale

Filed under: il consumatore non consumato,le specie musicali — alessandro @

Questo trentennale dei BB me lo sento proprio addosso e ha agito sottopelle in maniera inaspettata. Per festeggiare ho deciso di comprare una chitarra nuova :-) In realtà lo voglio fare da tempo, ma ora mi sono deciso.

Decisione piacevole e tormentosa allo stesso tempo. Negli ultimi tre giorni ho provato decine di chitarre e ho suonato per ore nei negozi cittadini. Per questo giro non ho voglia di andare a Bra o in altri grandi magazzini: se avessi un budget maggiore lo farei, ma devo andarci piano e quindi sono abbastanza sicuro che posso trovare qui ciò che cerco.
Sono passati sedici anni da quando ho comprato l’ultima chitarra e oggi è davvero difficile scegliere. Voglio una bella acustica con buone possibilità di amplificazione, non da studio ma neanche pazzesca perché non me la posso permettere. Una volta scelta la fascia di prezzo comincia il difficile.

È che non bastano le caratteristiche tecniche. È una questione di feeling, una cosa molto personale.
Se non avessi problemi di budget punterei su una Martin o su una Taylor. È chiaro che a questi livelli l’intesa è più facile. Oggi ho provato una Taylor ed è stato più che un test, è stato un incontro. Lo spirito di Ray Charles si è prontamente manifestato per scongiurare attacchi di cleptomania:

“Ok, prima o poi sarai mia, è solo questione di tempo”. Ora non posso spendere 2800 euro per una chitarra. Magari non potrò farlo mai, “però tu comunque aspettami”, le ho detto riagganciandola al muro del negozio :-)

Per il momento ho ristretto il ballottaggio a due Yamaha della serie CPX. Hanno casse e tastiere molto ben fatte, suoni caldi e corposi e il vantaggio di un doppio microfono: un pickup sotto il ponte e un microfono a condensatore dentro la cassa, sospeso al centro e quindi non a contatto. Si possono miscelare i due microfoni molto agevolmente regolando il volume del secondo microfono: una caratteristica che aumenta molto le possibilità espressive valorizzando il suono naturale della chitarra. Il suono del solo pickup sotto il ponte è sempre troppo metallico, almeno per i miei gusti. Mi viene sempre da compensarlo aumentando i bassi ma così il suono perde in brillantezza, e quando la cassa armonica saprebbe farsi valere è un vero peccato.

Una delle due vorrei prenderla, ma qualche giorno riesco ancora a resistere. Se qualcuno ha dritte o suggerimenti… :-)

Aggiornamento del 12 giugno

No, no, altro che pochi giorni. Ho guardato ancora in giro e c’è tutto un mondo. Tanto per cominciare mi sono reso conto che la mia Ovation non è ancora da buttare via, anzi: dà dei punti a molte chitarre nuove che ho provato e che costano un venti per cento di più di quanto ho speso io sedici anni fa. Devo solo darle una regolatina.
Quindi può darsi che mi orienti su un’elettrica o su una semiacustica, vediamo. Comunque ci vuole ancora tempo. Mi dò come limite la fine dell’anno, perché sia davvero la chitarra dei trent’anni.

9 Aprile 2010

Gestore, ti voglio parlare

Filed under: il consumatore non consumato,parole, non fatti — alessandro @

Ho sostituito una delle mie carte di credito, quella con cui pagavo tra le altre cose le bollette del cellulare. Di conseguenza ho dovuto comunicare a Vodafone la variazione. Ho chiamato il numero verde. Mi hanno fatto richiamare da un “addetto abilitato a gestire questo tipo di variazioni”.

Ho comunicato i dati della nuova carta di credito. L’addetto abilitato a quel punto mi ha detto:
– Bene, provvederò subito a gestire l’addebito dell’ultima fattura su questa carta. Se va tutto bene riceverà un sms di conferma, in caso contrario la richiamerò.

Ho ricevuto poco fa il messaggio. Eccolo:

Gentile cliente, la variazione da lei richiesta è stata gestita.

Il neretto è mio.

In una breve comunicazione abbiamo fatto indigestione di gestioni.
Sarò noioso, ma che vuol dire? Io vedo tre significati diversi.
Nel primo caso gestire vuol dire prendere in carico.
Nel secondo caso vuol dire addebitare (qui è facile, c’è il verbo dopo: ma appunto, non basta?)
Nel terzo caso vuol dire… eh, lo so perché me l’ha preannunciato: perfezionata, andata a buon fine. Se non ci saranno problemi riceverò il messaggio, mi era stato detto. Se non avessi avuto questa specifica di metodo avrei potuto interpretare il “gestita” dell’sms nel primo significato, cioè come presa in carico.

Ecco un’altra di quelle parole contenitore che piacciono tanto ai burocrati, alle aziende. Che danno un tocco di ineffabile professionalità alle cose più banali.

Tu chiamale, se vuoi, gestioni.

19 Ottobre 2009

Il bus più volatile di Genova

Filed under: il consumatore non consumato — alessandro @

Ha ragione Massimiliano Lussana:

mi muovo sempre con i mezzi pubblici, perché penso che siano la migliore scuola di giornalismo esistente in natura

Anche se avessi l’automobile, e soprattutto la possibilità di usarla senza perdere metà vita a cercarle un parcheggio o a pascolarla a due all’ora per le strade di Genova, non rinuncerei al mezzo pubblico e lo userei spesso, come ho sempre fatto.

Parlare male del Volabus è facilissimo. Quello che dice Lussana è tutto vero e non è neanche tutto. Provate a raccontare a un amico di una città europea medio grande come Genova (che so: Dusseldorf, Bilbao, Liverpool) che l’unico mezzo pubblico collettivo che collega l’aeroporto al centro città è un piccolo autobus che fa una corsa ogni ora e costa quattro euro. Per un percorso di soli 7,7 chilometri. Non sarebbe neanche da bocciare del tutto il servizio in sé, se non fosse l’unico. L’alternativa, unica anch’essa, è il taxi.

Come è noto, l’aeroporto Cristoforo Colombo di Genova non è un hub fondamentale per le rotte europee. Uno dei voli più importanti in arrivo è il Ryan Air da Londra. Bene, il Volabus parte alle 13, cinque minuti dopo l’arrivo dell’aereo. Auobus semivuoto, naturalmente. Perché ammesso che l’aereo spacchi il minuto vi voglio vedere a scendere, fare la coda per il controllo dei documenti e aspettare che il bagaglio da stiva arrivi sul nastro trasportatore, uscire dall’aeroporto e prendere l’autobus. Questo ipotizzando che sappiate già cosa vi aspetta, perché forse un inglese che arriva a Genova per la prima volta potrebbe anche pensare di prendersela comoda e di non precipitarsi giù dall’aeromobile come un terrorista di Al Qaeda sorpreso con la gelatina esplosiva nella pochette.

Non va molto meglio per gli altri voli importanti: il British Airways da Londra Gatwick arriva alle 13:10, due dei quattro voli Lufthansa da Monaco arrivano alle 11.10 e alle 14.10 (il Volabus parte sempre all’ora esatta, a parte la prima corsa e le ultime due), due dei tre Air France da Parigi arrivano alle 11.55 e alle 22.10, tre dei quattro Alitalia da Roma arrivano alle 11.05, 18.55, 21.15. Insomma ci sono molte probabilità di passare piacevolissime ore o abbondanti frazioni delle stesse negli ambienti dell’accogliente e amichevole aerostazione a farsi rapinare nei bar scalerci o nelle boutique extralusso (i prezzi cambiano di poco dal toast di stegosauro al pullover di cachemire). A meno che non si prenda un taxi. Sono sempre a decine davanti all’uscita degli arrivi. Riscuotono un sovrapprezzo soltanto per uscire dal Colombo più le solite rapine diurne o notturne. Diciamolo, chi arriva al Colombo deve considerarsi in ostaggio e per uscire deve pagare un riscatto. Un pizzo, via. Se sono a Stansted a un’ora e tre quarti di autobus dal centro di Londra non è un pizzo, è un servizio che costa anche poco. Ma se sono al Colombo a soli sette chilometri dal centro è un furto.

Con tutti i suoi problemi, la rete urbana Amt che passa a circa duecento metri dall’uscita degli arrivi del Colombo per una volta cascherebbe anche a fagiolo. E si potrebbero una volta tanto ribaltare le frequenti critiche verso lo scalo genovese se si considerasse la relativa vicinanza al centro città rispetto ad altri aeroporti internazionali e la prossimità ad autobus e treni. Anche la stazione di Cornigliano è a due passi. Ma è una vicinanza soltanto teorica, perché dal Colombo esci soltanto con una automobile o con il Volabus. È questo l’aspetto più incredibile dell’intera questione. Mettiamo che il Volabus non sia un servizio abbastanza redditizio e che sia impossibile prevedere corse più frequenti ed economiche. Bene, basta fare un passaggio pedonale. In quattro, cinque minuti al massimo si arriva alla fermata all’inizio di via Cornigliano e si prende l’uno o il due per il Porto antico, il tre per Principe. Ottime frequenze almeno fino alle dieci di sera. La fermata è anche davanti alla stazione ferroviaria: in sette minuti arrivi a Principe. E non dico di mettere dei nastri trasportatori lunghi chilometri come da un terminal all’altro di Madrid-Barajas. Vado con le mie gambe, mi tiro dietro il mio bravo trolley, tengo lo zainetto sulle spalle ma fatemi uscire, fatemi sentire un uomo libero ogni tanto quando non vi costa nulla. Ah, già: i quattro euro…

La prima volta che sono tornato da Londra, dopo aver visto volare via il Volabus, mi sono impuntato e ci ho provato. Sono uscito dall’aeroporto a piedi. Oggi sono qui a raccontarlo, ma non so bene come è successo. Non è lunga ma bisogna fare un pezzo di rampa che da una parte va verso l’autostrada e dall’altra sfocia in via Cornigliano. La presenza dei pedoni non è prevista e probabilmente ho fatto qualcosa che non potevo fare. Ma quanto avrei voluto essere fermato dalla polizia, in quel momento.

24 Marzo 2009

Una bufala di pizza

Filed under: il consumatore non consumato — alessandro @

No, dai, il titolo è troppo cattivo. La pizza dei Fratelli La Bufala non è una bufala. Era un po’ che volevo provare quella pizzeria di via Colombo e stasera è capitata l’occasione.

Il locale è veramente gradevole. Corrisponde forse a una tipologia più americana che italiana: è curiosa questa pizzeria di ritorno fatta in Italia da emigranti italiani che hanno lavorato bene e ora aprono in franchising un po’ ovunque, madrepatria compresa.
La scelta di puntare su prodotti tradizionali e di qualità è apprezzabile. Non solo pizze. Carne e mozzarella di bufala campana arrangiate in ricette non tradizionali ma non esageratamente estrose.

La pasta della pizza è più che onesta, anche se troppo morbida per i miei gusti. Io la preferisco un po’ più croccante. Ma intendiamoci, ce ne fossero in giro di pizze così.

È un’altra, a mio modesto parere, la cosa che non va. E la scrivo qui nello spirito di una critica costruttiva, visto che sono gli stessi titolari a invitare a farlo (scrivono sul sito: “qualsiasi suggerimento per il nostro miglioramento è sempre ben accetto”). Per me è inconcepibile che nella scelta delle pizze di una pizzeria che si presenta come vessillifera della tradizione gastronomica campana soltanto quattro, cinque pizze su una ventina abbiano il pomodoro pelato come ingrediente. Tutte le altre sono bianche e poche altre hanno pomodorini tipo pachino. Non dico che sia inaccettabile, perché comunque la scelta base delle pizze tradizionali (margherita, marinara e capricciosa) c’è. Però per me la pizza senza pomodoro (e senza una dose generosa di pomodoro, non quelle colorazioni tipo fondo tinta che si trovano spesso in pizzerie da quattro soldi) non conta. Può essere anche molto buona, ma a me non va di chiamarla pizza. E se vado in una pizzeria che vuole essere “verace” non mi sembra una bella cosa che il 70% della scelta di pizze non sia fatta di vere pizze.

Scusate la pizza :-)

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