Cronachesorprese

6 Maggio 2011

L’invasione degli ultrapunti

Filed under: chiedici le parole — alessandro @

Sarò fatto male, ma davvero non riesco ad abituarmi all’invasione dei punti di interiezione e di domanda nelle conversazioni online e ormai in ogni messaggio redatto in un registro colloquiale e informale. Fino a qualche anno fa pensavo che fosse un vezzo dall’adolescenziale al tardogiovanile di una parte ristretta della popolazione alfabetizzata (male). Da un po’ di tempo invece constato con crescente raccapriccio che è ormai un malvezzo radicato in molti, senza distinzione di età, sesso, condizione sociale e soprattutto grado di istruzione.

Io ho fiducia che ciò che ho appena scritto si capisca e arrivi con forza sufficiente a chi legge. Se avessi dubbi cosa potrei fare? Una sola cosa: riformulare. Non mi sono mai concesso e non mi concederò mai scorciatoie, come potrebbe essere ad esempio concludere il paragrafo precedente così:

Da un po’ di tempo invece vedo che è un malvezzo radicato in molti!! Senza distinzione di età, sesso, condizione sociale!!! E soprattutto grado di istruzione!!!!

Onestamente: ho aggiunto qualcosa di utile alla mia comunicazione?
Ho aggiunto qualcosa di utile?? Eh???!

Non credo che il messaggio arrivi meglio. È solo più rumoroso. Sarà che penso che la dimensione della comunicazione scritta, anche quella colloquiale, esista in primo luogo per fuggire dal rumore o minimizzarlo. Esagerare negli espedienti che la lingua ci concede per dare espressione alla parola scritta significa violare questo patto non scritto tra la comunità degli scriventi.

Non voglio fare richiami a regole formali. Voglio invitare a riflettere su una consuetudine che è un peggioramento oggettivo dello stile della comunicazione scritta. Mi rivolgo, me ne rendo conto, a un sottoinsieme di scriventi sempre più vasto ed eterogeneo. Tra i miei conoscenti coinvolti in questa cattiva abitudine non riesco più a trovare un denominatore comune. Ed è per questo che scrivo questo post: se l’interiezione selvaggia fosse lo stigma di una forma di ignoranza non mi piacerebbe ugualmente, ma mi preoccuperebbe meno. Purtroppo è invece ormai il sintomo di un’epidemia che miete vittime insospettabili.

Una volta per tutte: perché sentite il bisogno di scrivere così???? invece che così? Non trovate che sia esagerato, invasivo, inelegante e soprattutto inutile? Vi spiego come la vedo io, e ve lo spiego usando come esempio questo stesso paragrafo. Perché vedete, l’ho iniziato con due periodi che si concludono con un punto di domanda. Potrei continuare perché avrei altre domande da fare. Ma prima di farlo sento il bisogno di frapporre altre frasi che si concludano con un punto normale. Già due punti di domanda a conclusione di due frasi consecutive mi sembrano troppi. Figuratevi che effetto mi fa vederli accalcati tutti gridanti e scalcianti alla fine di un periodo: un pugno nello stomaco. Bene, ora ho scritto abbastanza, posso concedermi altre due domande. Perché non volete dare fiducia alle vostre parole? Non capite che l’abuso di quella punteggiatura così espressiva toglie energia alla frase invece di rinforzarla?

Il punto è proprio questo: non aver fiducia nelle parole. L’abbondanza di interiezioni è direttamente proporzionale all’incuria nella scelta delle parole e nella costruzione della frase. Fateci caso. Tutte le volte che sentite il bisogno di schierare come falangi macedoni esclamazioni e interrogazioni alla fine di una frase chiedetevi cosa state rinforzando e proteggendo, chiedetevi quanta energia avete investito nel dare maggiore forza e chiarezza alle parole che vengono prima.

Non ditemi che nelle conversazioni online è ammesso, non ditemi che non ha senso mettersi al tornio per ogni parola e frase quando si sta in chat o si cazzeggia tra amici. O quando si aggiorna uno stato su facebook o anche quando si scrive su un blog. Intanto il web ha il suo bravo markup language. Poi ci sono quelle grandi invenzioni (e io ne abuso, lo ammetto: sto cercando di uscire dal tunnel) che sono gli emoticon. Va bene, da quando usiamo il web abbiamo aumentato molto la quantità di parole che scriviamo ogni giorno. Questo per me è un progresso anche senza considerare la qualità di ciò che si scrive: è un fenomeno che ho osservato fin dall’inizio con interesse e simpatia. Ma appunto, il web writing ha cambiato la nostra esperienza di scriventi non solo perché ci fa scrivere molto di più, ma anche perché ha introdotto i suoi codici ed espedienti di espressione. Rendere ipertrofica la punteggiatura non serve a nulla: inquina, ammoscia, sterilizza il testo scritto semplice ed elude i nuovi strumenti di espressione che il web mette a disposizione.

Ma non si tratta in primo luogo di un problema della comunicazione nel web. Le punteggiature stanno proliferando selvaggiamente in qualsiasi testo cartaceo e non (ci sarebbero anche i tre punti… ripetuti… che mi fanno venire la nausea come quando giri in tondo troppe volte… ma quello è un fenomeno più antico…). Proliferano come l’ostreopsis ovata nel mar ligure in estate in determinate condizioni di temperatura e umidità. C’è chi dice che quelle chiazze in superficie siano poco belle da vedere ma non tossiche. Sarà, ma preferisco non nuotarci in mezzo. E se amici e conoscenti avranno la bontà di non costringermi a farlo per seguirli ne sarò contento. Certe proliferazioni le vedo, e soprattutto le sento, come intossicazioni.

24 Marzo 2011

Sorpresa: Houdini doodle

Filed under: chiedici le parole,lo spettatore indigente — alessandro @

Grazie Google :-)

houdini

Houdini comunque non era un semplice illusionista, come dicono molte delle note biografiche sparse sulla rete. Per me Houdini è un profeta della società dello spettacolo. E anche se per Debord l’idea di “spettacolo” ha ben poco di positivo (perché è marxianamente un grado più raffinato di alienazione) io, come alcuni dei figli della società dei consumi, sono attento a tutto ciò che, dall’interno di una società che nasce su presupposti ostili alla felicità individuale, manifesta l’attitudine a rompere questo schema e a considerare invece in pirmo luogo le individualità e le persone. Che vengono sempre fuori, anche dall’esperimento sociale più massificante.

Come ogni profeta, Houdini annuncia e rompe. Annuncia una novità e rompe uno schema. È come se intuisse che un giorno non lontano ci sarà la televisione. Organizza uno spettacolo televisivo senza televisione, raduna un pubblico che è già televisivo. Ma lui stesso è televisione, quindi rompe, profetizzandola, la distanza strutturale che la televisione sarà. Houdini è televisione di carne e di sangue. Televisione che rischia la pelle, pur di riuscire a lludere. Houdini è furbo, usa la tecnica, usa il denaro, usa carisma e intuizione, ma il suo coraggio è autentico e quando “gioca” a illudere mette tutto se stesso, senza risparmiarsi. Io vorrei che i media oggi fossero come Houdini. Vorrrei che non raccontassero mai alla gente di non lludere, vorrei che umilmente dichiarassero gli strumenti, la forma della loro illusione, e che rischiassero di persona illudendo.

Un altro profeta è Saint Exupery che si scaglia contro chi ha reso il volo un fatto solo tecnologico e ha tolto il fattore umano. E da quel dato della sua esperienza di pilota cominciata in un periodo in cui i piloti rischiavano la vita per aprire nuove rotte, Saint Exupery arriva non solo a odiare e combattere la tecnocrazia nazista (che lui chiama “il moloch”) ma a prefigurare la tecnocrazia futura che dopo la guerra dovrà essere combattuta.

Ma il doodle di Saint Exupery l’abbiamo già visto nel 2010. Le celebrazioni di Google spaziano dalla scienza all’arte, con un debole per i grandi anticonformisti in ogni campo. Mi piacciono quasi sempre.

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2 Settembre 2009

Now-here place

Filed under: chiedici le parole — alessandro @

Con questo racconto ho partecipato nel giugno 2006 a Giro rapido, un concorso indetto da Porsche Italia e Gente viaggi. Chiedevano di scrivere un racconto sul tema del viaggio (io scelsi tra le tracce disponibili “Il paese che non c’è”) in 911 minuti. Ho passato la selezione genovese e ho partecipato alla finale a 12 in Romagna il mese dopo, senza vincere. È stata una bella esperienza e il racconto ancora oggi non mi dispiace. Chi avrà la pazienza di leggerlo consideri il tempo limitato che avevo a disposizione e perdoni lungaggini, idee abbozzate e mal scritte, scelte sbagliate nella punteggiatura, frasi fatte ed eccessi retorici che sarebbero stati eliminati in fase di riscrittura. Ma mi piace l’idea di riproporre il racconto così come è uscito dai “miei” 911 minuti (non l’ho cambiato se non in pochi passaggi), perché il tempo che dedichiamo a un lavoro, qualsiasi esso sia, ha un valore perché comincia e finisce. Un lavoro che non finisce mai o è vano o è inestimabile. Spero che a qualcuno piaccia il frutto dei miei 911 minuti.

– – – – –

Lui lo cercava da mesi.

Non che se ne fossero perse completamente le tracce. Ma il grande sassofonista Vinicius Melina, detto Ancia del vento, da qualche anno non amava esibirsi in luoghi affollati. Evitava i grandi festival di jazz che l’avevano visto per decenni acclamato dal pubblico e dalla critica. Si diceva che fosse alla ricerca di un po’di tranquillità, che cercasse ispirazione e concentrazione per una sua ricerca musicale e spirituale.

Ogni tanto però si presentava a sorpresa in qualche locale e si esibiva gratuitamente, producendosi, dicono, in assoli e virtuosismi inarrivabili che non facevano sentire la mancanza di accompagnamento di sezione ritmica, fiati e quant’altro. La sua interpretazione degli stili tradizionali e d’avanguardia del jazz stava raggiungendo esiti formidabili e mai sentiti.

Questo per un po’ di tempo. Poi aveva cominciato a disertare anche i locali.

L’avevano visto, e sentito, a Pantelleria.

Il tam tam su internet, già rimbalzato nelle riviste specializzate, sosteneva anonimamente (ma a più voci) che per un certo periodo avesse affittato un dammuso nelle vicinanze di Porto Scauri e si muovesse a cavallo di un cinquantino scassato, il sax inseparabile al collo. Vagava per le strade polverose dell’isola, all’alba o al tramonto per evitare le ore più calde, a cercare angoli reconditi tra le coltivazioni di capperi e l’uva che appassiva al sole impietoso. L’epica confezionata per essere data in pasto alla mitomania degli appassionati arrivava a raffigurarlo in pose prometeiche, ostinato a scontrare i suoni di fraseggi difficili e sublimi contro l’ossidiana che vena la roccia e accompagna la via scoscesa verso Balata dei Turchi, per strappare chissà quali risonanze e armonici alla roccia nera e lucida.

L’avevano sentito, e visto, anche nel sud del Portogallo.

Nella parte meno spettacolare dell’Algarve, nella palude tra Tavira e l’omonima isola costiera che dà sul mare aperto. Si rifugiava chissà dove, forse aveva una tenda sulla sabbia o addirittura tra fango e giunchi, poiché non risultava tra i clienti di nessun albergo o pensione in paese, e neanche di un camping sulla costa; ma non si nascondeva, anzi camminava per chilometri sull’ampia spiaggia ricoperta di conchiglie e ogni tanto concedeva qualche assolo ai campeggiatori fricchettoni (o che amavano, per un mese all’anno, passare per tali). Dicono che la sua musica fosse in quei giorni ritornante e insistente come la risacca del mare, e il suo sax incrostato di sale.

Lui invece l’aveva soltanto sentito, in Argentina.

Sul Rio Tigre, non distante da San Isidro, nella provincia della Capital Federal. Pochi chilometri da navigare dal lindo centro turistico su un corso d’acqua che evoca in piccolo (ma neanche tanto) il Mississippi, e per un jazzista chissà quali suggestioni. Era stato lui, Simon Arcella, uno della stessa schiatta del sassofonista errante, un pianista appassionato e indolente, a riconoscere un passaggio di Swinging stronger than the melody of my heart, un grande brano scritto da Vinicius all’età di vent’anni, croce e delizia di tutti gli interpreti. Nessuna radio, nessun cd, nessuna riproduzione: la voce del sax tenore di Vinicius era viva e squillante. Si interrompeva e ricominciava, ogni volta più vicina all’originale, ogni volta sideralmente lontana da qualsiasi tentativo di imitazione. Lui, che diversi anni prima aveva avuto la fortuna di accompagnarlo in quello stesso pezzo al Newport Jazz Festival, non aveva dubbi: il fenomeno era lì. Dal battello che stava per terminare il sonnolento giro turistico Simon poteva soltanto immaginarne la presenza, ma sicuramente era rifugiato in una delle tante casette a palafitta in disuso, mezze mangiate dalle piene del fiume. Sorrise deliziato, e parve non pensarci più.

Ma la notte fu quella stessa musica a svegliarlo. Non il caldo della pensione di Belgrano a Buenos Aires in cui era alloggiato per passare parte delle sue vacanze. No, era la voce roca di quel sax che continuava a risuonargli in testa. Come se lo chiamasse.

Passano i giorni, la vacanza finisce e Simon torna nella sua casa di San Francisco. Ma il sax continua a farsi sentire. Forse per farlo tacere (ma più probabilmente per rendere più nitido un desiderio ancora oscuro) comincia a chiedere informazioni agli amici musicisti che incontra.

– “Cosa si sa di Melina?”
– “Poco o nulla. Appare e scompare. Appena si accorge che la gente comincia a parlare di lui fa perdere le sue tracce”.
– “Sai, io l’ho sentito in Argentina”
– E come ti è sembrato? Dicono che stia andando un po’ fuori di testa”.
– Non saprei. Io l’ho soltanto sentito, non l’ho visto in faccia. Se andare fuori di testa significa suonare così, vorrei impazzire anch’io oggi stesso”.
– “Bah, caro Simon, lo sai meglio di me: la musica è un mestiere come un altro. Il musicista suda come un metalmeccanico, ma il metalmeccanico non impazzisce per l’acciaio. Quando si toglie la tuta, alla fine del suo turno, torna ad essere uno tra i tanti. Melina non l’ha mai capito, o non l’ha mai accettato. Grande talento, nessuno lo mette in dubbio, ma ha sempre suonato come se dal suo sassofono dovesse uscire chissà cosa. Diamanti o pietre preziose, o anche conigli e criceti, non so: ma qualcosa di diverso dalla musica e dalla condensa del suo fiato. Io dalla mia tromba vorrei che uscisse una vita tranquilla, non chiedo tanto”.
– “La musica di Vinicius è diversa. Lui è diverso. Non può essere un caso che continui a vagare come se non riuscisse a trovare riposo: lui è uno che ha avuto la fortuna di non lasciarsi ammazzare dalla routine. Sempre in ricerca, sempre in viaggio”.
– “Fortuna? Certo, un po’ di bigliettoni in più di te e me li ha messi da parte. Ma se continua così corre il rischio di mangiarseli tutti, e non ha ancora passato la cinquantina. Non fa più un concerto, un’incisione, non concede neanche un’intervista. Prima o poi la pacchia finirà, nessuno si ricorderà di lui e si ritroverà con il culo per terra. No caro Simon, io non lo invidio”.

Simon la pensa diversamente. Forse neanche lui lo invidia, ma è affascinato da quell’idea di libertà: un viaggio sulle ali della musica alla ricerca di una musica che ancora non c’è. Un pellegrinaggio tra tanti paesi alla ricerca, forse, di un paese che non c’è. Tra vivacchiare a San Francisco da un locale all’altro e andare per il mondo inseguendo soltanto la propria musica non avrebbe dubbi sulla scelta da fare, se fosse in grado di scegliere.

“Vinicius Melina”. Enter.

Migliaia di risultati nel motore di ricerca ordinati per rilevanza. Il sassofonista errante ha suonato nel Souk di Casablanca, in un villaggio ai margini della foresta amazzonica, nelle miniere abbandonate dello Zimbabwe. I concerti estemporanei coprono un arco di tempo dai due anni a due, tre mesi prima dell’episodio sul Rio Tigre. Niente di più recente. Simon comincia una ricerca febbrile, scrive agli indirizzi che trova, cerca di avere informazioni sulle testimonianze più attendibili. Melina si ferma in media in uno stesso luogo per sessanta giorni, a volte qualcosa di più, a volte qualcosa di meno. Il punto è avere informazioni fresche che garantiscano la sua presenza in un luogo a non più di venti giorni da un avvistamento in un luogo diverso: a quel punto si può ragionevolmente sperare che non se ne vada immediatamente, e rischiare un viaggio. Simon ha deciso: vuole incontrarlo.

L’informazione buona arriva finalmente dopo mesi. Vinicius sta percorrendo il Camino verso Santiago di Compostela: non si sa da dove l’abbia cominciato ma è già in Galizia, forse a non più di un centinaio di chilometri dalla meta. Ci sono buone probabilità che la sua destinazione sia quella di tutti i pellegrini, come dicono testimonianze concordi raccolte da alcuni che l’hanno incrociato sulla loro strada. Vinicius appare pelle e ossa ma molto energico. Segue quasi regolarmente il Camino principale, con piccole e imprevedibili deviazioni per non essere troppo rintracciabile.
L’hanno visto a Ponferrada, l’hanno visto a Melide; alcuni sostengono di averlo visto circa venti giorni prima anche a Roncisvalle e Pamplona, ma Simon sa che queste informazioni sono in contraddizione con altre che davano Vinicius in altri luoghi, ben distanti dalla Spagna, nello stesso periodo. Quindi non sa quanto siano attendibili anche le indiscrezioni che ora lo danno più vicino alla meta. Ma lui è a piedi, con sulle spalle uno zaino come un normale pellegrino e al collo il sassofono al posto della tradizionale conchiglia. Prima di Santiago non ci sono altri aeroporti internazionali: anche se volesse fuggire, dovrebbe arrivare alla meta naturale della strada che sta percorrendo. Se non in quella città potrà trovarlo in zona, con un po’ di metodo, pazienza e fortuna.

Santiago assomiglia tanto a una città ideale per uno come Vinicius, pensa Simon mentre passeggia assorto per le vie del centro storico. Non troppo grande, non troppo piccola. Una città vera, con tutti i servizi di una città, ma circondata da boschi e natura selvaggia, e non molto distante dal mare. Un mare che parla; di più: un oceano che urla in faccia a un continente.
“Un mare che suona con il vento, e anche questo piacerà a Vinicius”.

Nel luogo dove, secondo la leggenda, arrivarono le spoglie dell’apostolo Giacomo dopo essere approdate miracolosamente sulla costa della Galizia, niente è statico e imbalsamato. Sembra che tutto possa e debba ancora accadere. Ma la città soprattutto è un luogo sempre attraversato da gente diversa. Dove se vuoi puoi passare abbastanza inosservato. Dove la stranezza e l’originalità dei visitatori sono qualcosa che non fa notizia. Tra pellegrini e studenti universitari le strade del centro sono sempre piene di gente e di vita. I ragazzi riempiono i locali, bevono, si divertono e ascoltano musica, ma non hanno le facce di certi giovani delle metropoli nordamericane, incattivite dallo stress e dalla violenza che respirano ogni giorno.
“Anche questo piacerà a Vinicius. Suonerà volentieri, qui. E io con lui”.

Pellegrini appena giunti, in attesa di entrare nella cattedrale. Simon si avvicina.
“Avete notizia di un pellegrino con il sassofono?” Nein, nada, nao, no. Simon risale il lungo serpentone variopinto di uomini e donne ripetendo la stessa domanda in inglese e approssimativamente in altre lingue. Si rivolge in particolare ai ragazzi che portano uno strumento, chitarre, armoniche: loro dovrebbero averlo notato. Ma niente. Simon passa quasi un giorno intero a chiedere la stessa cosa a chiunque incontra, per le strade, nei locali, ma sempre senza esito. Poco dopo il tramonto si siede sui gradini di un antico palazzo nobiliare, pensando che tra non molto si rifocillerà con un pulpo alla gallega e riprenderà le ricerche il giorno dopo; quando a un tratto, in fondo alla strada a non più di cento metri di distanza, scorge nel crepuscolo una sagoma che lo fa sussultare. L’ombra cammina spedita e assorta, la testa leggermente piegata, al collo qualcosa di ingombrante che sporge dal profilo. È un attimo e l’ombra scompare dietro l’angolo. Seppur esausto, Simon scatta in piedi e si getta all’inseguimento.

Non vuole fare troppo rumore, non vuole spaventarlo: arrivato all’angolo frena per non irrompere nell’incrocio. Giusto in tempo per vedere la sagoma svoltare nuovamente in una delle strade più larghe che attraversano il centro in direzione della cattedrale. Simon accelera, perché la strada in quel punto è affollata e non corre più il rischio di farsi sentire, ma piuttosto di perdere di vista la sua lepre. Ora si fa largo e sgomita tra i ragazzi che ridono e cantano. La sagoma è ancora lontana e a tratti scompare. Ma la direzione sembra quella della cattedrale. Una volta in piazza dovrebbe essere più visibile, e Simon si sta avvicinando. Arrivato in piazza, però, non vede più nessuno. Simon non ha più fiato e non sa più da che parte andare. Ha la chiesa di fronte a sé. A destra ricomincia il giro dei vicoli in altra direzione, a sinistra si va fuori dalle mura. Vinicius non è in nessun luogo.

Simon sente nuovamente il rumore dei propri passi sul selciato, mentre ritorna verso il dedalo dei vicoli, circospetto, cercando di indovinare la direzione giusta. Il chiacchiericcio dei passanti, in sottofondo, non basta a coprire la musica ad alto volume e la caciara degli avventori dei locali. C’è sempre una parte attiva della coscienza di Simon che cerca di distinguere, in quel magma di suoni, una traccia inconfutabile della presenza di Vinicius.
Così quella nota soffiata, seppure di molti decibel sotto al livello medio del rumore di fondo, non passa inascoltata. Non è vicinissima, ma è netta.

Simon si ferma, pare implorare alla gente che ha attorno il massimo silenzio per non ostacolare la ricognizione della traccia successiva. Che arriva più nitida, e suggerisce una direzione. Pochi passi, la svolta in un vicolo, in un altro. Dieci, venti metri, e scorge l’ingresso di una specie di pub con ampie vetrate colorate sulla strada. Molta gente si accalca davanti all’ingresso. Il locale è pieno ma attraverso la vetrata Simon scorge nuovamente la silhouette dell’uomo che sta inseguendo da mesi. A vederlo così, a breve distanza seppure attraverso un filtro, Simon non ha più dubbi. Cerca di entrare, ma viene respinto. Pare che la gente si appresti ad ascoltare qualcosa di straordinario, e non voglia perdere le posizioni migliori. Anche fuori si predispongono all’ascolto. Il pianista, giunto alla meta, si tranquillizza e si adegua.

“Non sei più un fantasma, sei finalmente in un luogo, anche se sembri ancora evanescente. E ti appresti a fare quello che hai sempre fatto, ciò che sai fare meglio di qualunque altra cosa, ciò per cui sei nato. Ora suonerai, io ti ascolterò come tutti gli altri e poi ti abbraccerò. Come questi pellegrini hanno abbracciato dopo quasi mille chilometri la statua del santo che sentono fratello e amico, non Dio giudice lontano e impietoso. Perché anche lui ha bisogno di un luogo, per essere conosciuto”.

“Suona, fratello, suona. E rispondi, anche senza parole ma con il linguaggio che ti è più familiare, a una domanda semplice semplice: dove stai cercando di andare? E (forse tu lo sai) perché IO ti ho seguito fin qui?”

Una nota, due. Vinicius Melina saggia la risposta del sassofono con piccoli soffi ripetuti, imponendo senza volerlo l’attenzione generale. Qualche scala, tanto per scaldarsi. E senza soluzione di continuità eccolo annunciare il tema di To live the life I’m livin’, brano arduo come pochi, con ripetuti cambi di tonalità e ritmo. Simon chiude gli occhi e prova a immaginare un batterista che provasse a stargli dietro, in questo momento. E un pianista, poi… non ne parliamo. Alla fine di un assolo Vinicius ripropone il tema, conclude con un soffio che pare l’ultimo respiro e approda al breve silenzio che lo separerà dagli applausi e dal secondo brano. Che pare non arrivi. Dai gesti attraverso il vetro Simon capisce che Vinicius sta chiedendo silenzio. Subito dopo distingue la mano che si alza e si abbassa per dare un ritmo, e il suono di dita che schioccano. Tutto il pubblico fa lo stesso.

E su quel letto ideale riprende il sax. Ma il tema, questa volta, è sconosciuto. Anche all’orecchio esperto di Simon. Passa in rassegna mentalmente tutto il Real book, le rarities, niente. Questo è un nuovo brano, questa è un’anteprima assoluta. Il tema si ripete due o tre volte e poi, sullo stesso motivo, attacca finalmente la voce di Vinicius. Simon sente salire l’emozione, perché Vinicius Melina, a memoria di tutti i musicisti viventi, non ha cantato mai niente.
Neanche Lui è un bravo ragazzo.
Neanche Yankee Doodle.
Neanche Tanti auguri a te.
Canta ora, con una voce roca che sembra abbia imparato ad articolare i suoni dal sassofono.

“A place where to stay,
I wish I’d know where is.
A place where I can play,
a place just for me.
Clean like a major chord,
without wrong additions;
sweet like a minor chord,
without strange variations.
Where climb a ladder in a breath,
without pain;
where take the A train every time,
and never in delay.
A place that is body,
a place that is soul.
A place like a music,
a place that is nowhere…

Or maybe now and here.”

24 Aprile 2009

Cambio

Filed under: chiedici le parole — alessandro @

Da oggi questo blog sarà un po’ diverso. Sarà un po’ più personale. Cambio. Cambiano le esigenze, o meglio aumentano, ma una parte di Cronache va a pascolare altrove. Cambio rispetto a quanto dicevo nel novembre 2006. La riflessione sui media, sul giornalismo, su internet, sul caro (sempre più caro) social network, sulla cronaca nel suo farsi non scomparirà da qui, ma avrà meno importanza, o forse continuerà ad esserci e ad essere importante ma sarà più mescolata con altre cose.

Per certi versi sarò più immediato, perché parlerò più di me. Per altri versi lo sarò meno, perché cercherò di dare più spazio alle suggestioni, alle immagini. A un altro tipo di cronaca.

Ho bisogno di accumulare più materiale vario e in parte personale qui dentro. Ho avuto spesso la tentazione di farlo, ma ho sempre resistito. Ora non c’è più ragione di resistere.

Tutto sommato sono le 19.30 di un bel giorno.

26 Gennaio 2009

Le nostalgie dei sensi

Filed under: chiedici le parole — alessandro @

Rispondo all’invito di Scalpo e aderisco alla Nostalgia carogna 2009 di Sogni & Bisogni. Non inoltro a mia volta la catena, però: ho smesso da tempo :-) Dico solo che avrei molto piacere a leggere anche le nostalgie di tutti i miei amici segnati qui sulla destra. Senza impegno.

Ho realizzato che mi riesce difficile provare nostalgia per qualche sensazione “persistente” del passato. Preferisco rifarmi a momenti precisi, e credo che siano comunque porte aperte su altrettanti mondi. Perduti o no, non lo so. Forse potrei recuperarli in qualsiasi momento, e a pensarci se così non fosse dubiterei di essere vivo.

Nostalgia auditiva
Le ore passate a casa del mio amico RS ad ascoltare i suoi dischi e a cercare di capire le chitarre. Cominciammo nel 1981 con Bennato (che non finirò mai di ringraziare per le sensazioni che mi dava, a 15 anni, la sua ritmica) ma passammo presto a Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Robben Ford, Roy Buchanan, Eric Clapton e John Mayall (i “bluesbreakers”) e tanti altri, per concludere con una bella sbronza di Frank Zappa. Ne ho nostalgia perché ero drogato del suono di tutte le chitarre del mondo, che si apprezzavano così bene nell’ottimo impianto stereo del mio amico, e non ho mai più fatto una full immersion così nella musica. In quel periodo avrei potuto ben dire con Duke Ellington “Music is my mistress”, anche perché quanto ad altre mistress non è che stessi combinando un granché… però che bello.

Nostalgia visiva
Mi perdoni chi me l’ha già sentito raccontare migliaia di volte, ma questo per me è un ricordo fondamentale. Senza non sarei io. Sarei un altro me.
Estate 1970, siamo in vacanza dagli zii a Isola di Caprigliola. Una sera andiamo ad Albiano Magra dove c’è un cinema all’aperto. Danno 2001 Odissea nello spazio. È una magnifica sera d’agosto (credo, o forse luglio), le immagini e i silenzi di Kubrick sfondano nel cielo stellato e nei sommessi rumori della campagna e del fiume poco distante. Avevo neanche cinque anni, ma mi sono goduto quel film come non mi è mai più capitato. Senza il minimo turbamento. La considero un’esperienza estetica fondamentale.

Nostalgia tattile
La più difficile. Scelgo l’erba del passo del Lagastrello, sulla quale mi sono buttato stremato dopo l’impresa ciclistica della mia vita. Era l’agosto del 1985. Sono stato per almeno dieci minuti bocconi sul prato. Sentivo l’erba alta avvolgermi quasi completamente. Quando si è così stanchi, e così contenti della fatica fatta, il contatto con la terra è la cosa più bella, insieme all’acqua da bere e all’ombra di un castagno per riposare.

Nostalgia gustativa
Pantelleria, agosto 2003. I capperi sotto sale rinvenuti nel vino locale e poi usati per il condimento alla pantesca. Me l’hanno spiegato lì che i capperi non vanno lavati nell’acqua. Vino, o in mancanza almeno aceto bianco.

Nostalgia olfattiva
Settembre 1982, ultimi giorni di vacanza, Cinque Terre. Una camminata di tre giorni su e giù dai santuari al mare, dal mare ai santuari. La prima notte dormiamo a Montenero, ci alziamo prestissimo e piombiamo a Manarola alle sette. Nessuno per i carruggi, l’odore del pane appena fatto che si mescola alla brezza del mare. Indimenticabile.

Cinque cose di cui non ho nostalgia

Gli archivi cartacei. Se non usassi il computer da quasi vent’anni sarei annegato nella carta, perché non riesco a buttare via niente…

Il fumo nei locali. Saranno anche scenografici i locali in cui si taglia l’aria con il coltello, ma a me non sembra vero di andare a ballare o a bere qualcosa, tornare a casa e non sentire i vestiti che puzzano di sigaretta…

I cinema senza posti numerati. Le multisale avranno tanti difetti, ma entrare e avere la certezza di trovare posto è una conquista sociale… :-) Me le ricordo solo io le code infinite al sabato e i film visti su un piede solo?

Le bibite con i coloranti tossici. Io ricordo certe aranciate anni 70 che quasi macchiavano le mani…

La moda femminista fine 70 e inizio 80. Non sono mai stato particolarmente sensibile alle griffe, anzi. E quanto alle idee, mi sono sempre confrontato con chi la pensava diversamente da me. Però certe compagne di scuola che mortificavano la loro bellezza in quelle robe topesche, larghe come sacchi o di colori improponibili mi facevano davvero tristezza. (E insomma, da che pulpito, dirà qualcuno: va bene, anch’io vestivo alla me ne batto il belino…)

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