Cronachesorprese

2 Gennaio 2014

Certezze 2013. Speranze 2014.

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La strutturale ciclotimia italiana ha prodotto tra il 31 dicembre e il 1 gennaio la solita altalena tra invettive ed entusiasmi, come se un anno appena concluso potesse davvero essere gettato via caricandolo della colpa per le cose andate male e un anno appena cominciato potesse davvero reggere il peso di attese di cambiamento per lo più sproporzionate.

L’anno più difficile della mia vita fino ad oggi è stato il 2003. Davvero difficile. Ma quando ha preso congedo non l’ho insultato.
Ogni 31 dicembre invece mi trovo circondato da maledicenti di ogni sorta. E non riesco mai a capire da dove viene questo bisogno di maledire, di dissociarsi da una frazione del tempo come se fosse stata soltanto subìta.

Il 2013 per me è stato un anno di passaggio. Un anno che mi ha chiesto prevalentemente di “stare”, di ascoltare e di servire. Le prime due cose mi riescono abbastanza bene da sempre. La terza ho dovuto impararla quasi da zero.

Le domande e i desideri che mi lascia l’anno appena passato sono tanti. Troppi per spiegarli e scriverli qui. Posso però fare un elenco delle certezze, delle acquisizioni dalle quali posso ripartire: certezze che dettano anche le direzioni e le speranze per l’anno che è appena cominciato.

Ho una bella famiglia. Non da mulino bianco, tutt’altro. Ma una famiglia che con il tempo ha imparato a dare il meglio nelle difficoltà. Ed è pronta a imparare qualcosa di nuovo. Anche da nuove difficoltà ma se fosse anche da qualcosa di bello non farebbe schifo, ecco.

Sono un pellegrino. Dopo tanto vagare da un’esperienza ecclesiale all’altra, un vagare condito di qualche senso di colpa perché avevo il sospetto di non saper andare a fondo di nulla, ho capito che la forma del mio essere cristiano è quella del pellegrino. E l’ho capito non per aver pensato, ma per aver camminato e per aver permesso che il cammino invadesse la mia vita. Mi sono sempre fermato dove ho trovato nutrimento, ma non ho mai potuto resistere all’impulso di ripartire. Non devo farmene un cruccio: è giusto così, per me. È soprattutto l’unico modo in cui anch’io posso dare qualcosa, ed è questa la grande scoperta, la grande sorpresa. Non sono mai stato davvero fuori posto e non mi sentirò mai più così. Esserne finalmente consapevole cambia di segno e aumenta di intensità la mia appartenenza alla Chiesa.

Sono un giornalista. Questa è la mia vocazione professionale, non ho dubbi. Aspetto ancora che un’autorità lo riconosca pienamente e formalmente, ma intanto ho fatto dei passi avanti e in ogni caso non “pendo” più da questo riconoscimento. Mi servirebbe energeticamente per chiudere un cerchio che ho cominciato a disegnare ormai vent’anni fa. È importante e farò il possibile perché avvenga, ma non è più fondamentale.

La dialettica non è un fine. Amo discutere, soprattutto di questioni legate in qualche modo ai massimi sistemi. E mi piace “sentire” quando ho ragione e non fermarmi di fronte a niente e a nessuno, perché la verità ha le sue esigenze. Ma quest’anno ho provato un gusto diverso: usare la dialettica non per sbaragliare, non per far cadere muri, ma per andare a piantare semi in campi ostili. Apparentemente ostili. E poi affidarli, perché l’acqua, il sole, il nutrimento non posso essere io a provvederli, laggiù.

Buon anno a tutti.

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