Cronachesorprese

18 Marzo 2011

Appunti unitari

Filed under: cronache,tutto considerato — alessandro @

tavola italiana

In foto c’è la tavola che abbiamo imbandito a casa di mio padre per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Un pranzo un po’ tra il serio e il faceto, una celebrazione improvvisata ma, alla fine, sentita.
Questo anniversario mi sta piacendo. Non pensavo che avrei trovato così tante cose buone in questa ricorrenza. Tre anni fa pensavo che sarebbe stato importante cogliere l’occasione di una riflessione collettiva. Mi sembra che sia successo. Ho sentito parlare del Risorgimento con accenti nuovi e interessanti. Da tutti o quasi. Da diverse parti. Da esperienze diverse.

Sistemo subito la “parte” più vicina a me, i cattolici. Anzi li ha sistemati Ratzie, senza dimenticare nulla. Qualche cattolico si sente ancora poco italiano perché Pio IX, perché la breccia di Porta Pia, perché i Savoia massoni e i garibaldini mangiapreti? Mi dispiace ma non li seguo, e non li segue neanche Ratzie. Oppure qualcuno pensa che i cattolici non possano festeggiare perché sono stati “sconfitti”? Non solo le vicende del Risorgimento raccontano un altro film e un coinvolgimento non certo interessato o episodico della Chiesa italiana, ma anche la storia seguente. Se Pio IX era barricato e con qualche ragione, la chiesa nel territorio era largamente dalla parte delle aspirazioni alla libertà e all’indipendenza. Che non era indipendenza dal Vaticano. Un soggetto già molto debole, politicamente, all’epoca. Inoltre Ratzinger ha sommessamente ricordato che forse la storia “prima” del 1861 e anche del 1815 è un po’ più importante. Se l’Italia a un certo punto del XIX secolo si è sentita “una” non si può certo dire che la Chiesa e il Cristianesimo non c’entrino. Agli ipertesi che pensano che l’Italia sia ancora suddita del Vaticano e quindi vada ancora liberata va tutta la mia commiserazione. Ma non è tempo di polemiche.

Perché in definitiva chi ha vinto, chi è il protagonista dell’Unità? Nessuno. Non c’è una parte che ha vinto. Almeno a consuntivo dei 150 anni. A cominciare dai Savoia, che se 150 anni fa hanno riportato un grande successo non l’hanno capitalizzato in maniera dignitosa.

Che nessuna “parte” si sia mai sentita davvero protagonista di quella vittoria è evidente anche da altri segni. Capitava spesso, almeno fino agli anni novanta, che si bollasse come pura retorica il richiamo alla storia risorgimentale. Forse perché la propaganda fascista non si era fatta problemi a saccheggiare quella storia. C’era bisogno di un periodo di disintossicazione, o di “quarantena” come ha detto martedì scorso il professor Gibelli nella sua lectio magistralis a Palazzo Ducale a Genova. Bene, mi sembra che questo anniversario stia rendendo evidente che “ne siamo fuori”. Siamo fuori da una certa retorica. Forse ne stiamo creando un’altra, ma intanto godiamoci questa guarigione. Possiamo parlare del Risorgimento da una distanza storica ragionevole e anche liberi, ormai, da molte ingombranti superfetazioni retorico-propagandistiche.

Ne abbiamo avuto una conferma non da poco oggi da Napolitano. Mi ha stupito. A Torino ha fatto un capolavoro. Ha messo insieme storia, simboli unitari e repubblicani, cronaca. Parlando un po’ a braccio e anche commuovendosi sinceramente, e senza giocare sulla sua commozione. È stato autorevole e concreto, super partes ma non vigliaccamente neutro.

I leghisti. Sembra che molti sfoggino coccarde tricolori a ogni occasione principalmente per dare addosso a loro. Io no. Non li considero. Non riesco ad essere veramente preoccupato per le vicende di Adro o per amenità simili. Fanno un errore enorme a volersi distinguere, a disertare le celebrazioni e ad attaccare i simboli unitari, o a propinarci speciose definizioni di federalismo che non sanno di nulla (come ha tentato di fare penosamente oggi Cota a Torino). Però in fondo si condannano da soli. Non sto parlando delle contese politiche quotidiane, ma dei grandi temi come l’unità. Non sono attrezzati ad affrontarli, anche se ostentano grande sicurezza. Ma che ne sanno del federalismo del Cattaneo. Oggi sono vincenti politicamente. Ma la loro posizione ideale non ha alcun senso nel presente e non ha futuro. Se fossero seriamente separatisti o scissionisti li considererei e li rispetterei di più, anche senza essere d’accordo con loro (e parlo dei capi, non dei militanti che ci credono: per loro ho rispetto, anche quando vengono disprezzati). Ma non sono seri e autentici neanche in quello. Leggo nelle loro provocazioni un grande disprezzo per la gente, non solo per la storia. Quindi perché sprecare fiato e fegato a contestarle? Che ricadano nel vuoto di idee e di senso civico da cui vengono.

La sinistra. Ripeto, nessuno ha vinto centocinquanta anni fa. Ma soprattutto non hanno vinto loro. Non c’erano. Non hanno neanche perso: sarebbe un vantaggio ma non se ne rendono conto. I casi sono due: o la sinistra è sempre stata élite borghese e intellettuale, oppure non c’era. Ma la tragedia della sinistra, dai tempi della Rivoluzione Francese, rimane sempre la stessa: si identifica con il popolo ma non è il popolo, pensa di educarlo ma non riesce mai neanche a intercettarlo. Però direi che l’enorme presunzione con cui la sinistra nel 1948 si presentava alle urne con l’effigie di Garibaldi è stata superata, forse resiste in qualcuno ma non preoccupa. Diciamo che preoccupa tanto quanto i proclami leghisti di indipendenza della padania.

Dei caratteri nazionali si potrebbe discutere all’infinito. Passeremo i prossimi mille anni a esaltare e denigrare noi stessi, a periodi alterni: siamo un popolo ciclotimico. Io preferisco pensare all’unità come a una bella scatola vuota, ancora da riempire. E questo anniversario mi è piaciuto proprio per questo, perché ho visto in tanti il desiderio di farlo. Benigni a Sanremo ha sottolineato la gioventù di protagonisti che oggi celebriamo come padri della patria. Mameli era un ventenne. Una chiarezza di idee e uno spirito di sacrificio così netti in un ventenne, onestamente, oggi ci sconvolgono. Oggi neanche permetteremmo moralmente che un ventenne si carichi come una sveglia come facevano i Mameli di metà ottocento. E questo nonostante abbiamo inventato da quarant’anni la categoria di “giovane”, che nell’ottocento non esisteva. Parliamo dei “problemi dei giovani” non a caso, perché percepiamo i giovani principalmente come un problema. I potenziali Mameli di oggi non li valorizziamo per niente. Io mi avvio a una mezza età abbastanza clemente, con pochi problemi e nessun figlio. Nel mio piccolo, nel mio piccolissimo mondo di poche responsabilità e nessuna importanza cercherò di essere curioso di quelli che potrebbero essere i miei figli. Li guarderò con la speranza che sappiano riempire la scatola bianca rossa e verde con qualcosa di interessante e mai visto. Vorrei che vivessero e crescessero sentendo non il peso, ma l’affetto e il conforto di una speranza collettiva.

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