Cronachesorprese

24 Giugno 2010

Nessun eroe a Johannesburg

Filed under: parole, non fatti — alessandro @

Notoriamente sono quello del bicchiere mezzo pieno. Ma anche del bicchiere un decimo, un centesimo pieno. Il che non vuol dire che non mi incazzi per il resto del bicchiere vuoto, naturalmente. Mi piace in ogni caso considerare prima il pieno, per quanto poco sia. Una questione di metodo. Prima l’essere, poi il non essere.
Quindi non mi fraintendete: sono molto triste per questa eliminazione, perché era evitabile con poco di più e la fortuna non c’entra nulla. L’Italia non è stata sfortunata, a cominciare dal sorteggio del girone.
Però quando sento un telecronista dire: “entra Pirlo, uno degli eroi dei mondiali 2006″ penso con un pizzico di sollievo che nelle telecronache dei mondiali brasiliani del 2014 non sentirò scempiaggini come: “entra Pepe, uno degli eroi dei mondiali 2010”. Ecco, vedete, ci vuole poco a farmi contento.

Cosa può spingere un giornalista televisivo a chiamare eroe un giocatore vincente? Un giocatore che ha vinto, e basta. Mi dà fastidio anche quando si dice dei militari uccisi, figuriamoci per i calciatori.
Perché i giornalisti non eliminano la parola eroe dal loro vocabolario?

16 Giugno 2010

Vuvuzela digest

Filed under: cronache — alessandro @

La portavoce del comitato organizzatore di Sudafrica 2010 dice che le infernali trombette fanno parte della tradizione e quindi non si toccano. Però come trombette da stadio sono state brevettate solo negli anni novanta, quindi c’è qualcosa che non torna. Senza contare che il rugby, sempre in Sudafrica, le ha vietate. Ad ogni modo la Bbc si industria a offrire una versione delle partite libera dal ronzio; i bookmaker inglesi scommettono su quali saranno le prime squadre della Premier League a personalizzare e inserire nel proprio merchandising la vuvuzela. Per l’I-phone c’è un’app che riproduce il suono, peccato che non ce ne sia una per eliminarlo dalla Tv. Cosa però che pare sia possibile con un altro software, ad opera del solito smanettone tedesco, che filtra le frequenze giuste.

Potrei continuare per ore, e magari nel corso dei mondiali appena iniziati qualche aggiornamento a questo post lo farò. Oggi volevo almeno annotarmi il fenomeno, per rifletterci poi agevolmente. Gramellini dice che bisognerebbe studiare il motivo per cui molti vanno a cercare un oggetto per cui provano ripulsa; basterebbe anche soltanto capire perché tutti i giornali, tutte le televisioni, tutti i siti del mondo ne parlano. Compreso questo, vabbé :-)

La vuvuzela è un fenomeno mediatico. Provate a fare qualche ricerca, vi renderete conto dell’esplosione di contenuti dedicati in pochi giorni. C’è di tutto, dall’indignazione un tanto al chilo al complottismo di chi sostiene che il fastidioso sottofondo non può essere prodotto dalle trombette dei tifosi ma deve essere diffuso dagli altoparlanti dello stadio. Veri geni del male quelli che hanno pianificato lo strazio di tutti i timpani del mondo in diretta televisiva: Topolino avrà qualcosa su cui indagare.

Io odio quel suono, odio l’idea che qualcuno vada allo stadio con il fermo e sereno proposito di soffiare nella sua dannata trombetta a prescindere da quello che succederà in campo. Però come tutti gli appassionati di calcio, come tutti quelli che pensano che i mondiali siano imperdibili mi ci sono già abituato, mio malgrado.
Lasciamo anche perdere le questioni regolamentari, che pure avrebbero il loro peso (un arbitro sarebbe anche in diritto di far sospendere la partita, penso). Mi fa specie piuttosto la posizione del comitato organizzatore: fanno gli intransigenti contro gli “ospiti” però quando si trattava di diritti televisivi hanno avuto la loro parte. Hanno venduto un prodotto multimediale e dovrebbero fare il possibile per preservarne la qualità. L’audio è una delle componenti fondamentali di una diretta televisiva di una partita di calcio. Tutti sanno che le partite commentate da studio senza la presa diretta dei suoni dello stadio sono orribili. Sono un prodotto multimediale scadente, anche se hanno immagini ad alta definizione. Se vendono un prodotto e lo “fallano” prima di consegnarlo dovrebbero come minimo pagare una penale.

14 Giugno 2010

La satira che aspetto

Filed under: cronache — alessandro @

Il caso Luttazzi è riassunto e giudicato bene da Matteo Bordone. Non sono però d’accordo al cento per cento, in particolare con questo passaggio: “Io non sono cattolico e non mi occupo di perdono; non sono del Giornale, del Corriere o del Foglio e non mi occupo di volgarità. Sono ateo e materialista: mi interessa sapere come stanno le cose”. Dunque, io non sono ateo ma voglio sapere come stanno le cose. Anzi: proprio perché non sono ateo voglio sapere come stanno le cose. Questa idea che un pensiero orientato alla trascendenza sia menomato rispetto alla capacità di indagine è una balla colossale e offensiva, per smascherare la quale attendo da una vita una nuova generazione o corrente di comici. Ho fede, o fondata speranza, di vederla prima di morire.

Molti fan di Luttazzi sono delusi, alcuni infuriati. Nonostante ciò, se finora l’hanno seguito con attenzione vuol dire che ha intercettato bene il loro gusto. La tirata satirica contro Berlusconi a Rai per una notte, ad esempio, ha riscosso un successo con pochi precedenti nella carriera del comico. Ma l’idea era copiata. Quindi Luttazzi non ha nessun merito per quel successo? Non direi. In quel caso la trasposizione era perfetta, efficace, ha colto nel segno per l’occasione scelta, per l’adattamento del testo, per l’interpretazione. Ha fatto, possiamo dirlo, un buon lavoro. Certo, come dice Marco Simoni su Il Post bastava dirlo che l’idea era presa da un altro. Sarebbe stato sicuramente meglio. Però nella satira l’applicazione di qualcosa che funziona a un caso particolare non è una parte piccola del lavoro.

Altrettanto non si può dire per molte delle battute sulla religione. In questi casi Luttazzi si è limitato ad applicare la satira contro il fondamentalismo religioso americano di matrice protestante alla situazione italiana. Operazione superficiale e maldestra. Per fare solo degli esempi, in Italia i credenti che mettono in dubbio l’evoluzione in ragione di una interpretazione letterale della Bibbia sono un’esigua minoranza e sono duramente criticati, in primo luogo, dai credenti stessi; non ci sono pro-life che picchettano gli ospedali dove si praticano gli aborti ma c’è un dibattito aperto e maturo (che sfocia a volte in forti contrapposizioni, come è logico su questioni etiche di questa rilevanza) su una legge accettata da tutti; non ci sono gruppi o movimenti religiosi che si scatenano in crociate moralistiche e/o salutistiche come quella contro il fumo, che stimolava come pochi altri argomenti le performance di Bll Hicks.

Più di vent’anni fa ho avuto una discussione con un mormone in treno veramente esilarante. Senza che io e il mio amico che viaggiava con me lo chiedessimo, il tizio ha cominciato a decantare le meraviglie della vita dei mormoni che possono sposare tutte le donne che vogliono e che vivono secondo la legge di Dio. E naturalmente non possono fumare. Curioso, facciamo noi, da cosa discende che chi crede in Dio non possa fumare?
“Schius mi – fa lui – se nau veniss qui in dis trein Gisus Craist in person, e vi fumasse una sigarett to de feis, voi credereste lui? Eh?”
“Sì! Se è Gisus in person…”
Voglio dire, lo capirò da altro…
C’è rimasto maluccio. Sarebbe piaciuta la scenetta a Bill Hicks, no?

In generale appare stonata in Italia la critica alla religione che prende spunto dai clichet della “favoletta” creduta dagli stolti. Le battute su paradiso e inferno, su San Pietro e sulle fiamme che divorano i peccatori fanno ridere, sono buone, ma come sono buone tante barzellette. Giocano appunto su clichet riconosciuti da tutti come tali. Non colgono nel segno se indirizzate verso l’esperienza dei credenti italiani. Con tutto il rispetto per gli americani, c’è almeno un vantaggio nell’essere il paese che ospita il Vaticano ed è l’esperienza di popolo che supera facilmente le ingenuità e le trappole del fondamentalismo.

Luttazzi in questi casi non ha fatto la differenza che doveva fare per offrire una buona trasposizione. È vero però che questo errore in Italia non lo fa solo lui. Sta crescendo un anticlericalismo senza memoria, ben lontano dai pensieri forti dell’ottocento-novecento (marxista, anarchico, ma anche liberale) che criticavano la religione rispettando (e conoscendo) l’esperienza religiosa del popolo. Se oggi gli atei italiani considerano Odifreddi un maitre à penser e divorano i suoi libri come se contenessero argomenti nuovi e non risibili possiamo immaginare quanto sia sceso il livello. Ma possiamo anche guardare con speranza a quanto spazio nuovo e inedito si sta creando per la satira.
Penso che i limiti e le parzialità di questo nuovo anticlericalismo siano già ben presenti a tutti. Manca solo un bravo comico che ci lavori su.

10 Giugno 2010

Ci mancava la Discoteca Cristiana

Filed under: cronache — alessandro @

La DC degli anni dieci sarà una discoteca.
Io non so che pensare, reverendissimo Don Roberto Fiscer. Lei ha una faccia simpatica e si vede che è in buona fede. La messa sulla spiaggia mi sembra un’ottima idea, se si riesce a salvaguardare una certa naturalezza; la discoteca cristiana, invece, mi sembra come la corazzata Potemkin di fantozziana memoria.

Il Cristianesimo è una cosa bella: lei lo sa e lo vive, e io sono l’ultima persona che può dirle cosa deve fare.
Ma anche la danza è una cosa bella, e “ha il suo peso specifico”, come diceva Karol Wojtyla dell’amore, in veste di poeta e drammaturgo. Se lei dice “Gesù andava da tutte le parti” io non ho nulla da eccepire. Ma quando lei dice:

La nostra musica è una musica cristiana, una discoteca un po’ diversa, nel senso che ci si muove però ogni gesto ha un significato, un senso, tipo Gesù mi ama, mi metto una mano sul cuore e sento davvero una vibrazione, quindi non è muoversi come nelle discoteche…

io mi chiedo come può essere, come possa un approccio cristiano arrivare a un fraintendimento tale della forma e dello strumento che vorrebbe usare. La danza è danza, anche quando non è codificata. Anzi un eccesso di codici può essere davvero pesante da portare in pista. Il muoversi in discoteca è tutt’altro che insensato. È il movimento del corpo in sé che ha senso. Isadora Duncan diceva: “se riuscissi a spiegare cosa significa, non avrei bisogno di danzarlo”. Credo che sia molto più sacro, molto più cristiano questo approccio. E temo che il gesto della mano al cuore per significare che Gesù mi ama possa essere bello e appropriato in una discussione ma falsificante in una pista da ballo, e distruttivo per il messaggio che lei, in assoluta buona fede, vuole dare.

Naturalmente io sto tagliando fuori di proposito tutta la questione ambientale. Chi va in discoteca magari cerca e trova droga da sballo, più che ballo, e magari vuole approcciare una ragazza con intenzioni che un sacerdote potrebbe non condividere, o comunque non voler promuovere in un suo spazio o in una manifestazione organizzata da lui. Nonostante ciò non nutro molto interesse per la creazione di ambienti separati, e penso che la maggior parte delle persone la pensi come me: credo che siano gli ambienti che già esistono ad avere bisogno dei cristiani. Lo dice lei stesso: Gesù andava un po’ da tutte le parti. E allora lasci l’oratorio per il catechismo e la lectio divina o per far giocare i bambini e i ragazzi più piccoli; quanto ai giovani li porti in discoteca, ma in quelle vere. Se hanno un motivo vero e forte per stare insieme, verrà fuori anche dai movimenti più insulsi che il peggior tamarro della Riviera possa immaginare.

Con rispetto e stima.

6 Giugno 2010

Genova, le piazze e le movide parallele

Filed under: cronache — alessandro @

Quando comincia a fare caldo i latinoamericani di Genova vengono fuori. Non che non ci siano o non si notino nel resto dell’anno: sono tantissimi e ovunque. A Sampierdarena soprattutto.

Ma d’estate fanno meglio quello che sanno fare molto bene: vivere la strada e la piazza. Se c’è qualcosa che potrebbero insegnare a noi, oltre a ballare salsa bachata e merengue (ma quello lo stanno facendo, e bene) è questa capacità di socializzazione inintermediata che manca così tanto qui.

Manca più a Genova che nel resto d’Italia: Genova non è una città di grandi piazze. Quelle che ci sono non sono storiche, a parte qualche eccezione. Genova fino alla caduta della Repubblica non ha mai progettato grandi spazi all’aperto, e neanche grandi strade, ma solo piccole piazze o più spesso semplici slarghi in corrispondenza dei mercati, delle chiese più importanti e di edifici civili pubblici. Via San Lorenzo è stata “tagliata” nella prima metà dell’ottocento dai Savoia facendo spazio in un dedalo di case abbarbicate l’una all’altra (si chiama anche “taglio di San Lorenzo”), ma furono i francesi dopo l’occupazione napoleonica ad avere l’idea, perché la grandeur aveva le sue esigenze e voleva marcher trionfalmente dal porto a Palazzo Ducale. Se si vuole capire qualcosa di questa città bisogna considerare che nessuno, prima, aveva mai sentito l’esigenza di farlo.

Altre città italiane dieci volte più piccole si aggregavano e crescevano attorno ad almeno una grande piazza. Genova no. Né la cattedrale né Palazzo Ducale avevano davanti le attuali piazze. Fino ad allora quella parte del centro di Genova non era “carrabile”: uomini e merci arrivavano dal Mandraccio a Portoria solo a piedi o a dorso di mulo. Stesso discorso per via Garibaldi o Strada Nuova: hanno sbancato una collina per esigenze di rappresentanza, perché serviva ai banchieri genovesi mandare in tutta Europa un’immagine diversa da quella di un enorme angiporto con le strade a giro come quelle di tutti i centri storici sul mare a rischio di incursioni saracene. Ma se non era per quello i nobili se ne sarebbero stati tranquillamente nei loro palazzi di via San Bernardo o di via Giustiniani, inaccessibili in mezzo al loro gran bel bordello urbanizzato.

Sono anche fattori storici e urbanistici come questi a rendere difficile per questa città accogliere i sudamericani, anche quando vorrebbe. Intendo anche per quella parte di città che consciamente li accoglie bene senza discriminarli, che non sarà (forse) la maggioranza ma non è neanche una minoranza esigua di illuminati intellettuali. Se i genovesi sentono culturalmente e razionalmente vicini i sudamericani per la lingua e le tradizioni culturali e religiose, inconsciamente li sentono distanti per il modo di stare insieme e di socializzare.

Le piazze che i genovesi non hanno mai usato sono facilmente monopolio di ecuadoriani, colombiani, peruviani. Passano all’aperto gran parte del tempo libero bevendo un po’ troppo ma vivendo quello spazio comune come noi non sappiamo (più) fare. Non dico che li invidio, ma questo è sicuramente qualcosa che hanno in più di noi. Io la sera sto poco a casa, soprattutto in questa stagione. Ovunque vada trovo molti sudamericani e pochi italiani. Parlo delle strade, non dei locali dove vado a ballare la “loro” musica e in cui si fanno vedere solo ogni tanto. Trovo anche nordafricani e altri, ma i grandi numeri li fanno i latinos. E mi viene un po’ di rabbia. Non perché trovo loro, ma perché non trovo gli italiani. Devo essermi perso qualche delibera non scritta che impone o consiglia una separazione di fatto.

La fighettistica “movida” di piazza delle Erbe, onestamente, è abbastanza ridicola. E lontana dalla vita vera della città: anche quello struscio è roba di rappresentanza che si fa una o due volte la settimana per sentirsi trendy. I vicoli al venerdì e al sabato sera sono stracolmi di gente, ma nessuno incontra nessuno. Al massimo ci si guarda da una certa distanza. Tutti sono già “con la loro compagnia”, categoria orrenda che, insieme al successo secolare delle banche, denota l’incapacità dei genovesi di simpatizzare per l’imprevisto, in qualsiasi forma umana o naturale si presenti.

È la latitanza degli italiani che a volte mi fa sentire un po’ un estraneo nella mia città, non il grande numero di extracomunitari. Qualche giorno fa davanti alla Commenda di Pré ho visto un gruppo di ecuadoriani che cantavano i loro pasillos attorno a uno con la chitarra. Mi sono fermato ad ascoltarli. A parte i troppi cartoni di vino scadente mi sono piaciuti. Non erano impostati, lo facevano solo per passare del tempo insieme e per stare bene. Mi chiedevo cosa manca a noi per fare lo stesso, magari con una bottiglia di vermentino o barbera a buon mercato ma onesto (una sola, senza esagerare).

Forse non abbiamo la necessità di ritrovarci per sentirci a casa, di fare un po’ di “casa” attorno. Loro usano molto la musica a questo scopo. Capita spesso, negli affollati autobus per il ponente, di incontrare qualche ragazzino sudamericano che sente musica a palla senza usare le cuffie. Roba tipo reggaeton per lo più, oppure bachatas eccessivamente mielose. Il primo moto è di fastidio. Ma solo raramente qualcuno reagisce. Li ho osservati molto e ho capito che la loro disattenzione alle esigenze degli altri viaggiatori non è strafottenza adolescenziale (parlo in generale, poi ci sono anche quelli che appenderesti al finestrino con le cuffie che non usano). È un modo di “marcare” lo spazio attorno a loro con qualcosa di familiare. Un modo istintivo e tutto sommato sano di reagire all’isolamento che probabilmente sentono. Un po’ li capisco: i loro coetanei italiani li snobbano e usano impropriamente anche la parola “movida”, senza immaginare neanche lontanamente che una “fiesta” è ben più interessante. Rompere un po’ di timpani sugli autobus tra Principe e Voltri è, in fondo, una ritorsione leggera, quasi umoristica.

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