Cronachesorprese

10 Dicembre 2004

Contiamo un po’ :-)

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il musicista di ruggine che non arrugginisce

Del nuovo CD di Paolo Conte ho sentito finora solo tre brani: elegia, sonno elefante e non ridere.
Sono sinceramente e positivamente stupito.
Un mio amico mi diceva che "elegia" non è un titolo contiano.
Vero, ma è adatto a questa roba. Non ho mai sentito un conte così lirico, quasi intimista.

Elegia l’ho sentita solo una volta ma mi è rimasta addosso, ha un andamento che è come un’onda tranquilla e regolare sulla spiaggia.
Per essere precisi: l’ho sentita, e non mi è rimasta in mente subito la musica come accade per un motivo ossessivo che martella o "pugnala" come dice Sergio Caputo. Non me la sono più cantata mentalmente per due giorni. Ma ieri, cercando i testi su internet, appena ho letto

avevo una passione per la musica
di ruggine

il motivo è affiorato immediatamente, come qualcosa di familiare e sentito mille volte. E ho pensato: bentornato, Paolo. Ma anche: quanto di bello ti è successo in questi anni per riaffacciarti così, con il carisma di Atahualpa o qualche altro dio?

Si può dire che Conte è cambiato? Eh no. Questa roba è interamente contiana. Però i matematici direbbero che ha trovato una soluzione più "elegante" per fare una nuova dimostrazione di un teorema la cui soluzione è già nota. Una via più breve ed essenziale. Che non passa, per una volta, attraverso "facce in prestito". O almeno, non nelle tre canzoni che ho sentito. Poi sicuramente, mi par di capire dai testi, "sandwich man" o "la casa del tango" sono di nuovo popolate dai suoi
rassicuranti istrioni.

Ma pensare a quanta strada è stata fatta dalla semiautobiografia di "una giornata al mare" o della fisarmonica di stradella… Dove c’è sempre una situazione o un personaggio per mediare qualcosa di sé. "Dopo il ballo domenica sera è sempre così" è detto da un viveur che ti fa sbirciare dall’oblò un momento in cui si coglie davvero l’attimo fuggente che vale una vita: non il culmine della danza nella balera, ma il ritorno che è già un po’ nel riposo (verso il bagno caldo,
l’accappatoio azzurro…) ed è ancora con un piede nella velocità, nel ritmo, nel trasporto. Un momento che dice passione, musica, casa, possesso, sensualità, che dice tutto quello che Conte è o vorrebbe essere.

Oggi invece ci dice "non ridere se io cado, inciampo e faccio per andarmene". L’altra faccia (non meno lieta, beninteso) di happy feet. Io ci vedo una mezza rivoluzione.

9 Dicembre 2004

Il grande Houdini, o dell’antinomia dello spettacolo

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sarĂ  questo il modo?

Ci deve essere un modo, dice Curtis – Houdini nella scena finale del film del 1953 uscendo semisoffocato dalla Chinese Water Torture Cell che aveva costruito per stupire, per trascinare ancora una volta il pubblico in una nuova avvincente illusione.

Houdini sfida la morte pur di stupire. E’ un impulso irresistibile. Il pubblico che invoca il nuovo incanto è per lui una condanna. Se non risponde, sente quasi di non esistere. E’ più forte dell’amore per la moglie e per la vita. Sublime e tremendo: l’applauso del pubblico, che lo chiama a una nuova sfida, è al di là del bene e del male. Non è amore, il pubblico come entità collettiva è incapace di amore, né il mago lo percepisce come tale. Per il pubblico è naturale che lui sfidi la morte, perché Houdini esiste per il pubblico solo in quanto icona che sfida le leggi naturali e le vince con grazia e stile, con il sorriso e l’inchino finali.

Ci deve essere un modo. Houdini è un illusionista ma è quasi indispettito dall’illusione troppo scoperta. Lui cerca il modo: ci sono degli inganni che sono, dice lui, come conigli dal cilindro, trucchi ovvi e stupidi. Artifizi. Lui cerca il modo, ovvero un trucco che sia invenzione senza artifizio, complessità senza macchinazione.

Innanzitutto ci deve essere il brivido. Il brivido è l’idea, è la forza di gravità dei suggerimenti dell’esperienza dalla quale ci libererà la navicella leggera del mago. L’idea di una donna giovane e bella segata in due, l’idea di un uomo imprigionato in una cassaforte a cui l’ossigeno viene a mancare a poco a poco, l’idea di avere addosso una camicia di forza che ad ogni minimo movimento si stringe sempre di più.

Il mago sa che l’esperienza quotidiana è mediamente claustrofobica, e si offre al suo pubblico come il pifferaio magico che stana questa sensazione per debellarla.
Il brivido che prova il pubblico durante le esibizioni non è il timore per la vita di Houdini, è il ripresentarsi, l’oggettivarsi delle personali paure di ognuno sull’icona Houdini. Lo dice lui stesso: "io sono come il torero nell’arena". Lo spettacolo di Houdini è un rito apotropaico moderno.

Poi, dopo il brivido, deve esserci la soluzione attraverso il trucco. Il pubblico deve sapere che il trucco c’è, ma deve essere ammirato non dal trucco in sé, ma dalla capacità del mago di tenerlo nascosto. Il trucco desta stupore perché diventa cosa tra le cose, come un fiore che sboccia: piace e desta meraviglia e nessuno vede o vuole considerare che nel codice genetico della pianta c’è scritto di arrivare a una stupenda fioritura. E’ questo il "modo" che cerca il mago, e che lo spinge ogni volta a superarsi.

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